Consapevoli dell’inconoscibilità di sé stessi e dell’esistente

Senofonte racconta che Socrate un giorno domanda ad Eutidemo se ha visto, e quindi anche letto, quella che era un tempo una epigrafe religiosa scolpita sulle mura del tempio...

Senofonte racconta che Socrate un giorno domanda ad Eutidemo se ha visto, e quindi anche letto, quella che era un tempo una epigrafe religiosa scolpita sulle mura del tempio di Apollo a Delfi: «Conosci te stesso» («Γνῶθι σεαυτόν», «Gnōthi seautón»). Il giovane allievo del filosofo ateniese risponde affermativamente. Ed allora Socrate incalza il ragazzo chiedendo se si è posto quella domanda, se l’ha rivolta appunto a sé medesimo.

Eutidemo risponde che se se l’è anche posta, magari involontariamente e solo leggendo la scritta, non ha sentito comunque il bisogno di rispondere al quesito autoriferito. Questo perché ha ritenuto di conoscersi sufficientemente, in virtù del fatto che, qualora non fosse stato abbastanza edotto circa la sua persona, come avrebbe potuto pensare di conoscere il resto dell’esistente?

La massima delfica si presta a numerosissime interpretazioni tanto filosofiche quanto filologiche perché, nel corso dei secoli, è stata praticamente utilizzata da una quantità di autori che risulta impossibile ridurla all’oscuro, iniziale e primordiale significato oracolare affidato alla benedizione del Dio del Sole.

Il punto che interessa approfondire è, partendo da questo aneddoto senofontiano, proprio quello dei limiti della conoscenza. Fino a dove possiamo spingerci nel ritenere di poter conoscere, nel conoscere e nell’approfondire ciò che abbiamo dato per acquisito e, quindi, introitato mentalmente e pure psicosomaticamente (se pensiamo ad un piano sensoriale, di contatto diretto con la materialità delle cose e delle individualità)?

La domanda è destinata a rimanere insoluta per una estrema relatività delle proposizioni che speculativamente si possono mettere in campo su un terreno dialettico in cui si cortocircuita la propria e le altrui menti in tanti bei giochi di parole e parole di giochi che, alla fine, non ci danno nemmeno la parvenza di essere vicini ad una soluzione. Che cos’è la conoscenza, che cosa vuol dire, anzitutto, conoscere.

Dovrebbe essere quella attitudine, non solo umana, ma prevalentemente tale, di acquisizione di nuove nozioni mediante l’esperienza, tramite quindi il diretto contatto con la realtà che ci circonda e che ci include. Per nozioni possiamo intendere ogni percezione anche intuitiva che ci proviene dal raffrontarci con il mondo e con chi lo abita insieme a noi. La conoscenza, quindi, è confronto, ma non esclude l’autoconsapevolezza, l’autocritica, l’autoesame che possiamo farci.

Tuttavia passando sempre dall’esperienza, ossia dalla invivibilità della vita, dalla irrisolvibilità dell’esistente, dell’essere, dell’esserci e del naturale domandarci – proprio perché coscientemente privi di questa coscienza che è “il sapere insieme“, il partecipare alla formazione di quella cultura sociale che è fatta di tante culture individuali ma che ha anche una propria vita, una propria caratteristica estrinseca, derivatale dalla somma delle esperienze.

Conoscenza e coscienza, dunque, viaggiano su binari paralleli, perché l’una comprende l’altra: non vi è possibilità di conoscere senza volontà di farlo; ma non vi è nemmeno la possibilità di poterlo fare senza avere un briciolo di istinto questa volta intrinseco (qualcosa di simile ad una platonica innatistica idea di “domanda” che si prontende al di fuori di sé stessi, ma che nasce in noi).

Socraticamente, l’irraggiungibilità della verità è, di per sé, l’ammissione quasi ontologica di una parzialità umana, di una finitezza che, tuttavia, non scoraggia la ricerca continua, quindi l’approfondimento costante di tutto quello che proviene dal campo dell’esperienza e che, quindi, può essere immediatamente dopo le nostre prime percezioni un oggetto di discernimento mediante un metodo deduttivo, tramite una dialettica delle posizioni che, tutte quante, meritano rispetto.

All’avvicinarsi sempre più preciso ad un punto di veridicità corrisponde la uguale e contraria coscienza della impossibilità della formulazione del risultato esaustivo: conoscere è possibile, anche e soprattutto sé stessi, visto che abbiamo capacità introspettive mediante il pensiero e la consapevolezza di noi medesimi. Ma risolvere le contraddizioni limitanti che ci impediscono di arrivare alla risolvibilità dell’esistenza è praticamente impossibile.

L’ostetricia delle menti del filosofo ateniese è una metodologia induttiva che, mediante la “dissimulazione” (in greco: εἰρωνεία (eirōneía, per noi traducibile, con tutte le cautele interpretative del caso, in “ironia“)), avrebbe l’effetto di trascinare oltre la cortina fumogena del dubbio il proprio interlocutore e, quindi, accostarlo al vero; se non altro stimolare il suo ragionamento affinché non si abbandoni ad una inazione che è stagnazione del pensiero.

Per conoscere noi stessi dovremmo, del resto, avere qualche certezza. Quante volte sentiamo dire: «Io mi conosco, so come sono fatto». Fisicamente non vi è nulla da eccepire: ognuno di noi si mostra allo specchio e si vede anche laddove è impossibile che lo sguardo arrivi. Tra tutte le parti del nostro σώμα (sóma, “corpo“), quella che non riusciamo a scorgere è proprio quella che più rappresenta noi stessi: il viso, il volto, la faccia.

Operando qualche distinzione, pure qui, meramente concettuale, ma che si rifà a millenni di abitudine filologico-antropologica sull’identità, la conoscenza di noi medesimi e quella degli altri, per come ci vedono (molto pirandellianamente parlando…), potremmo scrivere e dire che compiutamente possiamo dire di sapere chi siamo se ci guardiamo riflessi nell’immagine proiettata al contrario ragalataci da uno specchio.

Ma, oltre le fattezze di un volto rigidamente uguale a sé stesso, sono poi le singole espressioni mimiche della faccia a dire quale è il nostro volto interiore, quale sentimento fuoriesce in quel momento da noi e ci induce, quindi, al riso, alla mestizia, alla tristezza, al pianto, alla disperazione o al crogiolarsi nei pensieri ed all’essere accigliati e corrucciati.

Chi veramente conosciamo di noi stessi? Quale lato della nostra personalità possiamo dire di sapere essere prevalente sugli altri? La calma? L’ira? La seraficità o la paura, la dolcezza o l’asprezza di un carattere? Chi siamo dentro quell’involucro che, sempre socraticamente intendendo, è il corpo, concepito come una sorta di abito dell’anima? James Hillman ci parla di una essenza primordiale che abita in noi e che ci realizza giorno per giorno, ci edifica e ci costruisce minuto per minuto.

Non è la psiche cattolicamente intese, l’anima che si separa dal corpo dopo la morte o che vi entra al momento della nascita, come pensava Tommaso. Si tratta del nostro seme interiore, che abita nell’oscurità dell’inconscio: in un certo senso è la proprietà transitiva di questo stesso, il punto di passaggio da ciò che realmente siamo e non possiamo fino in fondo accorgerci di essere nel momento conscio della nostra giornata.

Quando dormiamo questa essenza viene a galla mediante le immagini oniriche, parla per metafore che paiono assurde, proprio perché non appartengono al mondo del razionale e del raziocinante. Se proviamo a forzare un po’ i concetti della filosofia socratica che, va ricordato, noi conosciamo grazie all’intercessione platonica, senofontiana, aristotelica ed anche aristofaniana, il mistero del δαίμων (dáimōn, letteralmente “demone” ma senza alcuna afferenza con l’iconografia cristiana e soprattutto cattolica) può somigliare all’inconscio che ci guida.

Platone scrive che Socrate intendeva questo demone interiore come una sorta di voce, di ispirazione, di coscienza che gli parlava. Ma il mistero di cosa veramente il filosofo ateniese intendesse quando parlava di dáimōn è e rimane purtroppo insolvibile. Al pari della verità in quanto tale che, per tutta la vita, egli cercò insieme ai suoi tanti discepoli. Noi potremmo, un po’ furbescamente, nella nostra pretesa modernista di aggiornare tutti i concetti del passato, ritenere il demone socratico qualcosa di vagamente assimilabile al “sesto senso“.

I cattolici parlerebbero di “angelo custode“, di una extrasensorialità che ci indirizza nelle scelte, che ci fa proseguire in un verso piuttosto che in un altro. Conoscere sé stessi indagando l’ancestralissimo demone socratico che ci abiterebbe è ancora più difficile del tentare di avvicinarsi alla verità mediante l’ironia e il metodo maieutico.

Tuttavia, è innegabile, il dibattito è affascinante perché unisce coscienza, conoscenza, intuizione, introspezione e, alla fine, tutte queste caratteristiche impalpabili devono fare i conti con la sostanza materiale di noi stessi e delle cose che ci circondano. Nella ricerca della conoscenza autocosciente, Socrate non ha dubbio alcuno sul dare all’intelletto un ruolo prettamente etico: conoscersi e conoscere vuol dire saper discernere anzitutto tra ciò che è bene e ciò che è male.

La funzione etica è, quindi, una peculiarità della nostra capacità di formulazione dei pensieri e nella loro messa in pratica nella vita di tutti i giorni. Alla valorialità esclusivamente fisica e corporale, il Nostro antepone una classifica di valori psichici, quindi dell’anima; di quell’anima che – come detto poco sopra – è l’essenza umana. Gentilezza, generosità, pietà, comprensione, bontà e, dunque, conoscenza, sono virtù e valori invisibili ma non eterei.

La loro messa in pratica avviene mediante la nostra corporeità: dunque noi, nell’essere unità tra corpo e psiche, tramite il fisico, tramite le smorfie facciali, i gesti delle mani, i passi che facciamo, esprimiamo compiutamente i valori dell’anima, del nostro più profondo essere.

La conoscenza di noi stessi è, quindi, non soltanto rintracciabile sulla via dell’indagine meramente interiore, ma anche per come ci esprimiamo in relazione al resto dell’esistente che ci circonda, al resto della vita di cui facciamo oggettivamente parte. Per quanti sforzi si possano fare, siccome la verità è irraggiungibile, lo è anche la verità su noi stessi.

Non possiamo sapere chi siamo in una completezza di concetti che ci rivelino anticipatamente le nostre mosse e, quindi, prevengano i nostri errori. Veniamo messi alla prova ogni momento della nostra giornata da un raffronto con eventi, cose, persone, altri esseri viventi che ci permettono di acquisire un’esperienza che è il continuum temporale e pratico della auto-conoscibilità, della comprensione di ciò che non siamo e di quello che vorremmo essere. Di quello che desideriamo e di quello che detestiamo.

Non siamo fatti di apriorismi, eppure i pregiudizi in noi sono radicatissimi, perché li preferiamo rispetto alle verità che ci risultano scomode. Meglio anteporre dei presupposti del tutto inventati ad una realtà dolorosa o, comunque, non corrispondente alla singolarissima idea di mondo che ognuno di noi possiede.

La conoscenza di noi stessi, dunque, è più che mai affidata all’essenza sociale dell’umanità, del singolo individuo che ne è parte e che non può non farne parte. Sarà pur sempre una conoscenza parziale, ma riuscire a fare ciò che non siamo ancora riusciti a concretizzare, ossia agire per il bene di tutti e di ciascuno, di qualunque essere vivente e della Madre Terra, sarebbe indubbiamente un ottimo viatico per aprirsi un varco verso la verità.

MARCO SFERINI

7 luglio 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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Il portico delle idee

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