Alcuni decenni prima del divampare della rivoluzione, si tiene in Francia un dibattito piuttosto serrato, anche se ancora molto elitario, sulla configurazione di una genealogia della Storia umana che permetta di strutturarla secondo categorie ben definite, osservando la possibilità di riscontrare cicli, corsi, ricorsi di avvenimenti che consentano di andare oltre le definizioni alquanto metafisiche che si potevano attribuire agli accadimenti.
Non il caso o la volontà di Dio, ma comportamenti dettati da decisioni prese in virtù di questo o quel principio politico, economico, sociale, civile o militare.
Il tentativo di dare seguito alle grandi questioni sollevate dall’Illuminismo proprio sul ruolo dell’essere umano anche nella macrocosmicità dell’universo e del senso dell’esistenza, ma in particolare del suo essere qui ed ora, del suo protagonismo nella storia propria che andava costruendo giorno per giorno, è al centro dello studio filosofico ed anche matematico di Jean-Antoine-Nicolas Caritat, marchese de Condorcet.
Quando la Rivoluzione francese scoppierà, avrà quarantasei anni e pochi altri da vivere. Della sua morte si sa pochissimo. O meglio, di come sia avvenuta. Il mistero è destinato a rimanere tale.
Ma di sicuro, avendo osteggiato certe decisioni della Convenzione giacobina, finì per essere, lui che pure aveva dato molto alla causa rivoluzionaria, braccato e incarcerato. Un intellettuale sopraffino, non sempre coerente con i suoi stessi scritti, capace di adattarsi ai tempi e di uscire quasi indenne dai rapporti avuto con la reale Académie des sciences nonché con ambienti di governo (basti ricordare l’amicizia strettissima con Turgot).
Robespierre non lo amò mai, perché – con ragione – aveva scorto in lui uno dei principali esponenti di quel gruppo enciclopedistico che aveva perseguitato il suo mentore Rousseau. Forse all’origine del suo arresto c’è anche un pregresso nemetico, una vendetta più culturale che politica.
O forse, più semplicemente, non era proprio piaciuto il fatto che si fosse dichiarato contrario ad un progetto di riforma della Costituzione che la Convenzione nazionale stava elaborando. Fu praticamente esiliato da Parigi. Ma vi rimase nascosto in casa di madame Vernet. Poi ebbe la malaugurata idea di fuggirne.
Venne catturato dopo due giorni di vagabondaggio nelle campagne intorno alla capitale. Il governo aveva dato ordine di arrestarlo. Il timore di essere stato scoperto lo spinse a fare troppo rumore e, quindi, ad essere notato, seguito e preso in trappola.
Il partito della Gironda, cui egli era stato iscritto per vulgata pubblica, essendosi opposto alla condanna a morte del re (ma non al processo e all’accusa di congiura contro il popolo francese), aveva del resto perso la maggioranza nell’assemblea e la disgrazia era arrivata pronta e servita per la fazione più moderata della Rivoluzione.
L’avventura finale della sua vita è degna di un romanzo hugoiano, mentre il resto della sua esistenza è una grande passione per la conoscenza, per la ragione, per la capacità di osservare gli eventi e di trarre da questi degli insegnamenti non solo empirici ma anche metafisici, cercando un punto di incontro proprio tra concezione teorica e concezione storica dell’esistenza.
Qui sta uno degli snodi dirimenti della sua elaborazione filosofico-scientifica. Qui si spiega anche perché proprio la matematica gli interessasse particolarmente. L’insufficienza del claustrofobico ambito perimetrale della metafisica non poteva più, per gli illuministi prima e per i francesi come Holbach e Condorcet, essere sufficiente nello spiegare le dinamiche di una Storia universale dell’umanità che, ormai era chiaro, si riproduceva similmente secolo dopo secolo.
Le similitudini più conclamate erano le formazioni e i disfacimenti degli Stati, le guerre, le pacificazioni, le continuità dinastiche interrotte da bruschi cambi di regime: quasi sempre per motivi di conservazione del potere o di innovazione e rinnovamento delle istituzioni pur nel mantenimento di uno status quo che aveva visto lottare fra loro le classi sociali con la conseguente vittoria di quelle mercantiliste prima e aristocratiche poi.
I tempi borghesi arriveranno per l’appunto con la vittoria della Gironda alla fine della Rivoluzione. Il giacobinismo sarà sconfitto non dalla Storia stessa, bensì dai rapporti di forza tra le classi che non vorranno perdere i nuovi privilegi ottenuti dopo l’aver surclassato l’aristocrazia e il clero del vecchio schema dell’Ancien Régime. Ma le idee di giustizia sociale rimarranno tuttavia presenti nella società e rinvigoriranno le successive spinte rivoluzionarie ottocentesche.
Condorcet si domanda come sia possibile, per l’appunto, imparare dal passato per comprendere meglio il proprio presente. E, siccome c’è molto da imparare, quale sia il metodo migliore; per non incappare in grossolani fraintendimenti di quanto è avvenuto, per non scambiare quelli che sono i meccanismi del succedere degli accadimenti con le semplici, seppure fattuali, convergenze casuali di eventi.
Ecco che l’attenzione nei confronti della preponderanza della metafisica è inevitabile, proprio per cercare di oltrepassarne l’inganno in cui getta spesso e volentieri gli esseri umani nella comprensione dal loro cammino attraverso i secoli e i millenni. Limitarsi all’osservazione – scrive il marchese rivoluzionario – è stare in pratica totalmente immersi nello spirito quasi dogmatico della metafisica. Che non spiega, ma guarda. Che non risolve, ma interpreta. Che non capisce fino in fondo, ma si accontenta di tendere a quell’obiettivo.
Ciò che interessa a Condocert è la considerazione dello sviluppo sociale, civile, economico e morale come elemento costante, senza soluzione di continuità, che avviene non per ispirazione divina ma per decisione umana, chiarendo così che la sola analisi metafisica è, se non impropria, altamente insufficiente nello spiegare il “momento storico” come sintesi attuale di quelli che l’hanno preceduto.
Seguendo questo filo espositivo nelle sue opere più importanti, il marchese stabilisce un nesso tra “errore” e “oppressione” e di questi due concetti storicamente definiti con quello di “tirannide“. Di contro, la “verità” fa il paio con “libertà” e “democrazia“. Una equazione molto discutibile, visto che gli errori non sono una prerogativa degli oppressori o dei regimi autoritari ma, purtroppo (o per fortuna), li commettono anche i regimi parlamentari, liberali, democratici e socialisti.
La categorizzazione di Condorcet ha rischiato molte volte di rasentare un imbarazzo dovuto alle tante contraddizioni cui si espone: sia sul piano del mero sillogismo acritico, stabilito quasi come nesso tra causa ed effetto che prescinde dalle tante pieghe che prendono gli eventi umani; sia sul piano della logica, della razionalità, della consequenzialità dei rapporti tra politica e società.
Non tutto può effettivamente seguire uno schema che ha più del preconcettuale che del deduttivo e che, quindi, prima di tutto va a scontrarsi con la critica della metafisica – più che giusta – che il filosofo francese pone in essere rimanendo aderente ai princìpi illuministici ereditati nel secolo stesso dei Lumi. Non di rado, anche là dove vigono regimi autoritari, laici o teocratici che siano, molte società funzionano almeno per quanto riguarda l’organizzazione pratica quotidiana.
Diversamente, invece, può succedere che la maggiore e pregevole complessità delle democrazie non arrivi a risultati così diretti e precisi e che, quindi, rischi di somigliare molto di più all’erratico ciò che più popolare, sociale e democratico rispetto a ciò che ne è l’esatto contrario e nega i diritti umani, civili e sociali fondamentali per ogni cittadino. Quello di Condocert, quindi, almeno su questo punto, è uno scivolone da cui è bene guardarsi.
Non senza qualche ragione, studiosi dell’Illuminismo e degli sviluppi francesi, hanno segnalato come nelle teorizzazioni del marchese un alto tasso di aporia sia una delle distinzioni particolari che lo riguardano e, certamente, il limite cui sottostà la sua opera. Ma questo non toglie nulla all’intuizione che lui ha avuto: prendere in considerazione lo sviluppo dell’umanità nella sua continuità.
Provare a leggere in ciò un insieme di fattori caratterizzanti che non potevano essere inclusi nell’attendismo metafisico o nel misticismo deistico è l’esatto lascito che Condorcet ci consegna.
Il suo essere critico nei confronti del deismo di Robespierre è ingeneroso; ma è pur vero che l’Incorruttibile includeva la missione rivoluzionaria entro la visione più ampia e universale di una “super-essenza” imperscrutabile, in un misticismo difficile da individuare con precisione ma anche impossibile da eludere verso la fine dell’esperienza giacobina nell’estate del 1794.
La religione laica della Rivoluzione, che tentava quella “scristianizzazione” della Francia cui nemmeno Condorcet era contrario (magari non al pari di Hebert, ma comunque non lo era), non poteva essere illuministica al punto da mediare tra vecchio e nuovo regime, tra clericalismo e sudditanza delle masse ai pregiudizi istillati dalla Chiesa e dal potere per millenni e nuovo spiritualismo dai tratti razionalistici.
Le incongruenze erano troppe. E a Condocert tutto questo non poteva piacere. Il suo interesse si rivolse, anche nel periodo del rifugio coatto presso madame Vernet, nella redazione di argomentazioni che individuassero una sorta di nuova alfabetizzazione mondiale, di un accesso alla cultura che potesse un giorno essere concretamente fattibile mediante una “lingua universale“. Si trattava, in sostanza, di una ulteriore tappa verso quell’avvicinamento alla verità cui aveva teso per tutta la sua breve vita.
Nel linguaggio comprensibile a tutti, nella comunicazione e, quindi, nell’arricchimento culturale egli vedeva gli elementi davvero fondanti la capacità cognitiva per chiunque e, quindi, una liberazione generale dalla schiavitù dell’ingnoranza, del dogmatismo metafisico, del fermarsi sulla soglia dell’accessibile sapere e non poterlo acquisire a causa delle troppe pregiudiziali tanto del passato quanto ancora del suo presente.
La Rivoluzione non lo aveva illuso e forse nemmeno poi così deluso. Faceva parte, con tutte le sue evidenti contraddizioni, di quella sequenzialità dei comportamenti umani che sono influenzabili e, quindi, influenzati da circostanze che divengono oggettivamente molto più grandi del singolo cittadino così come della massa che viene (etero)diretta da capi che si sostituiscono ad altri capi.
Continuità e progresso si compenetrano e ne escono non come un tutt’uno nell’opera di Condorcet, ma come un dualismo inseparabile alla base di una dialettica che non nega affatto lo sviluppo sociale ma che non può non riconoscere i limiti cui è sottoposto questo procedimento inesauribile e instancabile di azioni che si condizionano vicendevolmente.
C’è forse un briciolo di teorizzazione evoluzionista in Condorcet? La domanda, se potesse davvero avere una risposta scevra dal banalismo cui pare indurre, dovrebbe anzitutto emanciparsi dalla tentazione di una retroattività del futuro che il marchese non ha potuto conoscere.
Se avesse incontrato Darwin, indubbiamente i due avrebbero discusso a lungo dell’evoluzione umana, del progresso, delle magnifiche sorti di una umanità che finisce, proprio nell’emancipazione, per sacrificare a sé stessa un quantitativo enorme di diritti facendo prevalere solo i doveri: dai più forti verso i più deboli e indifesi.
Ma i viaggi nel tempo non sono possibili. Quindi ci dobbiamo accontentare dell’opera di Condorcet vedendovi nell’interno nemmeno così remoto e fondo, un pizzico di ispirazione evoluzionista. Ma giusto un pizzico.
MARCO SFERINI
2 giugno 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria