«L’era Marchionne a Pomigliano d’Arco per me è cominciata nel 2008: lo stabilimento Giambattista Vico chiude per 70 giorni, ci dovevano rieducare dissero. C’erano i camorristi sulle linee, eravamo i più assenteisti del gruppo (ma poi dissero lo stesso a Mirafiori), non andavamo a lavorare per vedere le partite del Napoli, insulti quotidiani dentro la fabbrica e sui giornali. La rieducazione serviva sia a introdurre il Wcm, il sistema di produzione ideato dalla Toyota, che a farci abituare a lavorare in una specie di caserma, dove la direzione e il caporeparto decidono tutto». Luigi ha la tessera Fiom, trentanni di esperienza al Vico, ricorda il prima e il dopo Marchionne: «Fino al 2008 producevamo tre Alfa Romeo, la 147 a tre e cinque porte, il Gt coupé e la 159. Modelli che avevano vinto premi come auto dell’anno. Il centro di ricerca stava lavorando ai Suv. Ci trovammo all’improvviso dipinti come dei nullafacenti che dovevano imparare a fare le automobili. Un giorno vado al corso e vedo che i cancelli del Vico stavano cambiando colore, al posto del rosso l’azzurro. Così ha capito che ci avrebbero tolto le Alfa. Invece di tre auto di lusso ci siamo ritrovati con una sola utilitaria, la Panda, e metà forza lavoro dichiarata in esubero dall’azienda».
L’ad porta al Vico lo stile Usa: «Al corso ci facevano sentire il monologo di Al Pacino in Ogni maledetta domenica, alle pareti delle aule c’erano grandi poster, ad esempio un campo di pecore bianche e una sola nera, che rappresentava il nostro stabilimento. Venivano i campioni dello sport a fare discorsi motivazionali. Soprattutto, ci spiegavano il processo produttivo mentre i vigilantes controllavano i reparti, non era mai successo, addirittura ti seguivano se andavi in bagno. Se chiedevi il permesso di andare in bagno ma prima andavi a comprare l’acqua ti arrivava una contestazione. Ci fecero pure ridipingere e pulire i reparti dove poi allestirono la linea della Panda».
Dell’arrivo di Marchionne a Pomigliano non può raccontare perché era finito in cassa integrazione, come la totalità degli iscritti Fiom: per tornare sulle linee c’è voluta la sentenza della Cassazione nel 2014 che ha condannato l’azienda per comportamento antisindacale. «Il giorno in cui arrivò al Vico noi della Fiom eravamo fuori a fare un picchetto. Quando sono rientrato a lavoro ho trovato dei tempi di produzione vertiginosi. C’è chi lavora su una piattaforma che scorre, la testa ti gira e così vai avanti con il nimesulide in tasca. Prima avevamo due pause da 20 minuti e la mensa a metà giornata, i tavoli e le sedie per socializzare. Adesso la mensa è a fine turno, che equivale a non averla, poche sedie e tre pause da 10 minuti. In 10 minuti o vai in bagno o bevi o telefoni a casa o ti siedi e, qualsiasi cosa scegli, lo devi fare di corsa. Io, dopo ogni pausa, sono più stressato di prima».
L’abbandono del contratto nazionale e l’utilizzo di quello aziendale, firmato da Cisl e Uil ma non dalla Fiom, ha conseguenze nella relazioni al Vico: alle prime assemblee sindacali della Fiom a Pomigliano, dopo il rientro in fabbrica delle tute blu Cgil nel 2014, partecipavano solo 15, 20 persone: gli operai temevano che l’azienda per ritorsione li mettesse in cassa integrazione. Perché al Vico c’è chi ha sempre lavorato (facendo pure gli straordinari) e chi era finito in cig a zero ore. La Fiom si è battuta per ottenere il contratto di solidarietà in modo da redistribuire lavoro e reddito. Ogni volta che la Fiom incontrava i rappresentanti Fca era in un tavolo separato, la controparte si sedeva solo perché costretta da una sentenza. La scorsa settimana al ministero del Lavoro è stata la prima volta che tutti i sindacati e l’azienda hanno discusso insieme: per Pomigliano altra cig straordinaria per 12 mesi, la Panda resta fino al 2022, sul secondo modello nessuna chiarezza.
ADRIANA POLLICE
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