Il tentato golpe dei bolsonaristi è stato un’insidia anche per il nuovo peso internazionale del Brasile. Che con Lula infatti «ritorna sulla scena mondiale» con il peso della sua condizione di stato-continente. E con il recupero di una diplomazia che si è guadagnata un forte prestigio internazionale.
Secondo vari analisti –come l’ex vice presidente boliviano Álvaro García Linera- è la conferma che l’America latina «sta vivendo una seconda ondata progressista». Anche se avverte che questa fase – a differenza della prima ondata iniziata con la presidenza di Chávez in Venezuela nel 1999 e durata fino al 2014, è «marcata da un progressismo moderato ». Inoltre, come afferma l’argentino Daniel García Oleado il subcontinente «si trova al centro della disputa di due grandi potenze: Stati uniti e Cina». Una guerra commerciale che dà all’America latina una nuova opportunità, ma ne traccia anche i limiti ideologici.
La presidenza di Lula, con il suo peso, può migliorare le relazioni tra governi progressisti del subcontinente (dal Messico al Cile, passando per Honduras, Cuba, Colombia, Venezuela, Bolivia e Argentina), facilitare i progetti di integrazione e accelerare il processo che permetta alla regione di parlare con una sola voce nello scenario internazionale. Si tratta in sostanza di mettere al centro la politica di integrazione e sovranità dell’America latina, su modello dell’Unione europea, come da tempo proposto dal presidente messicano Andrés Manuel López Obrador (Amlo) . È un progetto ripreso anche da Lula nell’agosto scorso quando formalizzò la sua candidatura a presidente del Brasile. In quell’occasione si riferì anche alla necessità di creare una moneta unica latinoamericana.
Come in più occasioni ha affermato Amlo, tale progetto non comporta un antagonismo ideologico con gli Usa ma una politica di dialogo e di confronto sia con il gigante del Nord, sia con quello asiatico, la Cina, basata sul riconoscimento della sovranità dell’America latina.
Questa politica presuppone il rafforzamento, o la rivitalizzazione, di istituzioni latinoamericane nate nella prima ondata progressista, come la Unasur (Unione delle Nazioni sudamericane), il Mercosur ampliato e anche la Celac (Comunità di Stati latinoamericani e caribegni) che, con il reingresso del Brasile – deciso venerdi 6 gennaio da Lula -riacquista una proiezione continentale.
Secondo le tesi di Amlo, con la presidenza di Lula, questa nuova alleanza progressista permetterebbe all’America latina di trattare con gli Usa «accordi continentali» su alcuni settori strategici – alimentare, lotta alla diseguaglianza, ambiente, emigrazione- in tutta la regione che gli Usa definiscono «Emisfero occidentale». Dove ormai la Cina –e in parte minore la Russia- diventano concorrenti degli Stati uniti.
È questa la sostanza del pacchetto di proposte che Amlo dovrebbe presentare nel summit dell’America del Nord che inizia oggi a Città del Messico, alla presenza del presidente Joe Biden e del primo ministro canadese Justin Trudeau. La prima proposta è di procedere verso un’integrazione economica continentale: «Che si produca in America, in tutto il continente, quello che consumiamo», ha affermato il presidente messicano. In secondo luogo, la creazione di una «Alleanza per il benessere», concordata tra Nord e Sud dell’America per «ridurre povertà, promuovere politiche di inclusione e ridurre i flussi migratori, mediante investimenti e creazione di posti di lavoro».
La terza proposta riguarda il quadro politico in cui dovrebbero inserirsi le due precedenti: porre fine alla dottrina Monroe, e dunque alle politiche di ingerenza degli Usa al sud del Rio Bravo, e sostituirle con altre basate sul rispetto della sovranità dei paesi latinoamericani.
Si tratta di temi sui quali Biden e una parte dei democratici sono sensibili. Lo scorso novembre il presidente ha nominato l’ex senatore Chris Dodd consigliere speciale per le Americhe. Biden lo considera «una voce di spicco sull’America latina». E chiedere il suo intervento significa che il capo della Casa bianca ha realizzato che la politica della sua Amministrazione verso il sud del Rio Bravo è allo sbando, in una fase di competizione con la Cina.
Una delle cause di tale fallimento è stato il sostanziale mantenimento della politica di sanzioni estreme contro Cuba (e Venezuela) decise dal suo predecessore Trump e rifiutata da tutti i principali paesi dell’America latina (ma anche dal Canada, dall’Ue). Sia Biden e soprattutto Dodd sanno che la politica del bloqueo è stata un fallimento, come aveva già detto Obama nel 2014.
Anche i dirigenti cubani riconoscono che la politica di duro scontro frontale promossa da Trump e tanto dannosa per l’isola non serve nemmeno gli interessi degli Usa. Per questo si sono detti disponibili a perseguire una politica, anche limitata, di avvicinamento. Con il Venezuela bolivariano di Maduro, una tale linea è già in corso da mesi.
ROBERTO LIVI
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