Che sia una manifestazione straordinaria per questo martoriato lembo di Calabria lo capisci subito dall’ingorgo di auto e bus che, alle prime luci del giorno, dalla statale 106 si immettono nella via Provinciale, e poi verso via Cusumano, in direzione lungomare.
A Locri la primavera ha il colore mattutino dello Jonio e dell’enorme bandiera arcobaleno che apre il corteo di Libera nella Giornata nazionale dell’impegno contro le mafie. La portano alcuni minorenni giunti in Calabria dal Nord Africa nei mesi scorsi a bordo di barconi. Ad assisterli Frank Mbaye, mediatore culturale, camerunense, arrivato a Milano nel 2002 e poi trasferitosi nella Locride. «I ragazzi stanno seguendo corsi di alfabetizzazione e di italiano, hanno presentato i documenti necessari e sono in attesa della decisione della Commissione sulla loro richiesta di asilo» ci dice.
Questa è terra di accoglienza, la «dorsale della solidarietà» di Riace, Caulonia e Badolato. Ma è anche dannata terra di ‘ndrangheta. Nella Locride, fazzoletto di costa che da Gioiosa si estende fino a Bianco, con le sue alture che s’inerpicano fino a San Luca e Platì, il giogo mafioso è retto da famiglie dai nomi altisonanti e temuti. Sono i Pelle, i Nirta, gli Aquino, i Commisso, i Morabito, i Macrì, gli Ursino. Non era facile per Libera scendere qui e organizzarvi la XXII Giornata per la memoria antimafia. Ma la scommessa è vinta. Venticinquemila persone, una marea umana dietro lo striscione: «Luoghi di speranza e testimoni di bellezza». I messaggi intimidatori della vigilia contro Luigi Ciotti non hanno scalfito la voglia di esserci. E forse han persino determinato un effetto moltiplicatore. Chi ha lunga memoria di cortei non ricorda in Calabria una partecipazione così massiccia da lustri.
Sfilano i gonfaloni dei comuni di mezza Italia, sventolano le bandiere delle associazioni, dei sindacati, dei partiti della sinistra, sciamano gli scout, gli studenti con gigantesche mani gialle e, dignitosi, calpestano l’asfalto del lungomare, circondati da palme e palmizi, i familiari delle vittime. È il loro giorno, una ricorrenza di mestizia e di speranza. Mostrano le foto dei congiunti, si commuovono ancor oggi.
Incrociamo i genitori di Dodò Gabriele. Quel maledetto 11 giugno del 2009, alla periferia di Crotone, Dodò fu colpito alla testa per un regolamento di conti tra ‘ndrine. Aveva 11 anni, stava giocando a calcetto. È morto in ospedale pochi mesi dopo. Ma Dodò non è morto per sbaglio, perché non c’è niente di sbagliato a trascorrer del tempo facendo quel che ti piace. Quando Dodò è morto si è fermata anche la vita della sua famiglia, spezzata da una tragedia tanto crudele. Ma poi i Gabriele hanno ripreso a camminare, insieme a Libera, e han compreso che era importante andare avanti e raccontare la vita di Dodò.
Oddi Dodò avrebbe 18 anni. E oggi i suoi genitori sono in piazza, accanto al padre di Gianluca Congiusta. Venne ucciso a Siderno, il 24 maggio 2005. Era un giovane commerciante di 31 anni. La sua famiglia ha scelto di ribellarsi al dolore e alla giustizia lenta. Prima il padre Mario, poi la sorella Roberta sono diventati pungolo costante della società civile calabrese. Mario Congiusta è salito sul palco a leggere il nome del figlio, tra le 950 vittime innocenti delle mafie.
Poco prima era toccato al presidente del Senato, Pietro Grasso, leggere quelli di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Grasso è l’unica figura istituzionale presente a Locri. Il Governo ha disertato l’appuntamento. Assente giustificato il ministro della Giustizia, Andrea Orlando (era annunciato, ma ha la febbre), manca il ministro degli Interni, il calabrese Marco Minniti (era venuto domenica con Mattarella), a cui devono esser fischiate le orecchie quando don Ciotti è salito sul palco davanti a una piazza stracolma per l’intervento conclusivo. «Bisogna combattere la povertà, non perseguitare i poveri» ha esclamato, con riferimento polemico ai recenti decreti governativi. «Diciamo no alla retorica della legalità e sì alla giustizia sociale. E’ questo il vero antidoto alla peste mafiosa. Le mafie non uccidono solo con la violenza ma anche costringendo alla rassegnazione e al silenzio. La memoria ha bisogno di continuità, la memoria non è una lapide ma è condivisione e corresponsabilità. E la prima mafia si annida nell’indifferenza, nel quieto vivere, nel puntare il dito senza far nulla e girarsi dall’altra parte».
Il presidente di Libera ha ricordato Danilo Dolci («mi ha insegnato che l’educazione è un progetto di vita»), ha citato Corrado Alvaro («abbiamo il diritto di sapere cosa i rappresentanti del popolo hanno in testa ma anche cosa hanno in tasca») e ha ringraziato il premier Gentiloni: «Mi ha comunicato che saranno concessi i benefici della legge Bacchelli a Riccardo Orioles, il giornalista che con Pippo Fava fondò I Siciliani». E così, per dirla con Claudio Fava, vicepresidente della Commissione antimafia, «per la prima volta una vita spesa per scrivere sulle mafie e sui suoi innominabili amici sarà considerata titolo di merito civile. Non di solitario accanimento».
SILVIO MESSINETTI
foto tratta da Flickr