Dateci voce. Ascoltateci. Non permettete che ci rendano invisibili. In Afghanistan le donne sono, di nuovo, oggetto accessorio, proprietà maschile. I talebani non sono cambiati. La loro amministrazione non va riconosciuta se non riconoscono i diritti delle donne, i diritti umani, cessano le torture, garantiscono a tutte l’istruzione.
«La voce delle donne si è fatta più forte in questi 20 anni, ma la crisi è grave. Resistere non basterà e costerà molte vite». Lo ha detto la studiosa e attivista Orzala Ashraf Nemat intervenendo ieri all’incontro Con le donne afghane, contro ogni violenza nel mondo, promosso e ospitato dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, in collaborazione con il media civico Le Contemporanee e la Ong Non C’è Pace Senza Giustizia, e con la viceministra Marina Sereni a fare gli onori di casa.
«Non c’è luce, non ho cibo, non posso andare a scuola e non posso vedere i miei amici. Sto seduta». Racconta una ragazza afghana appena arrivata in Italia di una sua piccola amica.
«È apartheid di genere, i talebani non riconoscono i diritti di oltre metà della popolazione», ha detto Shaharzad Akbar, ex giornalista della BBC e antropologa, ora a capo della commissione afghana indipendente per i diritti umani. I talebani si vantano di aver sconfitto la Nato ma non hanno competenze per governare e i cervelli fuggono o vengono uccisi. Il paese è in piena crisi umanitaria e servono aiuti economici per fronteggiarla – prosegue Akbar – ma se li dai, riconosci il governo».
«In vent’anni ho visto le donne cambiare», racconta emozionata la giovane attivista afghana dell’Ong Pangea, «adesso i sogni sono perduti. Noi lotteremo e moriremo e non ci fermeremo. Ma se non mangiamo come possiamo resistere? Abbiamo bisogno di denaro. Aiutateci».
Contatti con l’amministrazione talebana appaiono essenziali, dice Emma Bonino: «Abbiamo siglato accordi con i talebani e con il Pakistan per i corridoi umanitari. Collaborare non vuol dire legittimare. Il governo talebano non va riconosciuto», anche per non permettergli l’accesso ai fondi Onu. «Datemi idee però, perché io le ho finite. Mi sento impotente».
Sull’accoglienza e l’integrazione delle rifugiate afghane, competenza degli Interni, fornisce qualche dato il sottosegretario Ivan Scalfarotto: 4.890 rifugiate/i nei CAS e SAI (ex SPRAR), di cui 1.300 circa sono donne e 1.400 i bambini, oltre 25 minori non accompagnati. Il programma prevede un ingresso di altre 1.200 persone. Poche secondo Pangea che segnala 2.500 attiviste da salvare. «Intanto usiamo i numeri che abbiamo» dice però Marina Sereni «nel frattempo è in corso un confronto nel tavolo tecnico, costituito a fine agosto, intorno al modello del Community Sponsor canadese»: una comunità (un comune), un’associazione, piuttosto che una cooperativa, si propone con un progetto di accoglienza e integrazione delle e dei rifugiati; si potrebbe così forzare tetto dei 1200 rifugiate/i. Condizione: non essere di «passaggio» verso altri paesi UE.
Tutte insistono sull’importanza della mobilitazione della società civile, ong, volontariato. Solo loro riescono veramente a penetrare i territori e ad arrivare alle esigenze delle donne e dei cittadini più fragili. Ma quando si parla di fondi, il discorso si perde sui grandi numeri (150 milioni stanziati di cui 100 a fini umanitari) e sulle agenzie internazionali.
Ma, quali fondi per l’accoglienza e quali per garantire la sopravvivenza in Afghanistan saranno a disposizione delle ong e dell’associazionismo? Occorre accedere alla raccolta diretta sembra.
E poi le associazioni, tante, Pangea, le case delle donne di Roma e di Bologna, Save the Children e Action Aid, Amina e Sant’Egidio, Afghanistan 2030, OIM, AOI, Cospe, Intersos.
Tutte a disposizione, tutte impegnate con gli strumenti che hanno. Andiamo avanti dunque, con pazienza e con queste tessiture di reti di donne come ha dimostrato possibile il ricco dialogo di ieri.
SIMONA BONSIGNORI
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