Quando due diritti fondamentali costituzionalmente protetti, come il lavoro e la salute, entrano in contrasto, con un lungo e tragico strascico di morti, di ammalati, di ambienti inquinati e di disoccupati potenziali quanto reali, pensare di consegnare la soluzione del problema ai privati, per necessità di essenza animati dalla ricerca massimizzazione dei profitti nel più breve tempo possibile, è del tutto irresponsabile, per non usare termini più pesanti.
Eppure ci sono voluti 25 anni, da quel lontano 1995 quando l’Iri dismise l’Ilva cedendola alla famiglia Riva, per vedere affermata questa semplice verità. Con dieci giorni di ritardo sulla data fissata del 30 novembre si è giunti l’altro ieri sera – a mercati finanziari chiusi – ad un accordo che consente ad Invitalia, braccio operativo del ministero dello Sviluppo economico, di sottoscrivere con 400 milioni di euro l’aumento di capitale dell’ex Ilva, giungendo quindi al 50% dello stesso, per salire poi al 60%, con altri 700 milioni di investimento, conquistando la maggioranza nel giugno del 2022.
Il tutto sta scritto in un contratto di duecento pagine sottoscritto da Invitalia e Ancelor Mittal, cui è allegato il piano industriale.
Bisognerà passare dalle autorizzazioni della Commissione europea visto che siamo di fronte ad un ingresso massiccio di capitale pubblico destinato a diventare maggioritario con un sistema di governance interna che dovrebbe alla fine affidare a Invitalia l’individuazione dell’Amministratore delegato e a Ancelor Mittal la presidenza.
Si spezza un tabù del neoliberismo. Lo Stato torna ad essere imprenditore. Proprietario della più grande acciaieria d’Europa. Ma le condizioni con cui lo ridiventa non sono affatto quelle di un quarto di secolo fa. Dovrà quindi fronteggiare nuovi ed inediti problemi. Vi è bisogno di uno Stato imprenditore e allo stesso tempo innovatore, capace di correggere o mutare le stesse finalità produttive.
Per questa ragione non si può e non si deve considerare questa come una semplice operazione finanziaria, per quanto impegnativa. Per avere senso deve diventare l’asse di una nuova politica industriale, occupazionale e ambientale. La fumosità attorno a queste questioni cruciali spiega anche la prudenza con la quale il sindacato ha accolto l’accordo, così come la delusione dei sindaci di Taranto e delle realtà urbane limitrofe per non essere stati coinvolti a tutela dell’ambiente e della salute dei cittadini.
La Fiom chiede giustamente la convocazione di un tavolo con tutti i soggetti interessati per garantire l’effettività della piena occupazione e per discutere del piano industriale e ambientale, nonché del cronoprogramma degli investimenti. Sul piano occupazionale l’accordo parla di un lungo percorso di cassa integrazione per arrivare solo nel 2025 a reintegrare i 10.700 lavoratori. Ma questo purgatorio di quattro anni non può convincere i lavoratori e i loro rappresentanti.
L’obiettivo produttivo è arrivare a 8 milioni di tonnellate da raggiungere progressivamente da qui al 2025, rimettendo in funzione il più grande altoforno d’Europa e il debutto del forno elettrico. Qui gli interrogativi si fanno pesanti. Quali saranno le condizioni del mercato interessato all’acciaio nel mondo postcovid? Non è difficile prevedere che un simile obbiettivo possa entrare in collisione con l’esigenza insopprimibile e urgente di avviare un processo di conversione ecologica dell’economia.
Oltre che salvaguardare la salute di una popolazione che tanto ha sofferto nei decenni passati per le micidiali emissioni tossiche. Se il percorso previsto per raggiungere i precedenti livelli occupazionali appare lungo, incerto e accidentato – una marcia nel deserto è stato definito – le preoccupazioni per l’ambiente e la salute sono ancora maggiori.
Il conflitto fra lavoro e salute non è risolto dal semplice passaggio di proprietà dal privato al pubblico. Questo ne è solo una possibile presupposto. A condizione che vi sia una programmazione generale nel settore siderurgico. Vi sono altre situazioni in sofferenza, come Piombino e c’è già chi, nel fronte padronale, esprime la preoccupazione che l’accordo sull’ex Ilva possa fare scuola. Ma serve uno sguardo programmatorio che vada bel al di là dei nostri confini. In questo caso non fermandosi all’Europa, visto il ruolo che occupa la Cina nella produzione dell’acciaio su scala mondiale. A condizione che la vita dei lavoratori e dei cittadini non torni ad essere considerata come una variabile dipendente.
ALFONSO GIANNI
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