Perché dopo mesi di sollevazione di massa, centinaia di morti, migliaia di arrestati, decine di condanne a morte e due impiccagioni eseguite, nessuna estesa mobilitazione popolare contro il regime di Teheran si è sviluppata in Europa o negli Stati uniti? Dopo la grande manifestazione di Berlino nel mese di ottobre, nessuna piazza si è più riempita significativamente a sostegno delle ragazze e dei ragazzi che, a rischio della vita, sfidano la repressione di un regime oppressivo, spietato, ferocemente patriarcale. E ormai insostenibile per grande parte della popolazione iraniana.
Provare a rispondere a questa domanda può forse rivelarci qualcosa sullo stato in cui versano, in generale, i movimenti di lotta nel vecchio continente.
Non si tratta di azzardare paragoni con la stagione epica e da tempo tramontata delle lotte internazionaliste, ma di interrogarsi sulle remore, sulle difficoltà e sul disincanto che determinano questa inerzia. Che lascia il campo alle sole condanne formali di governi e istituzioni internazionali, alle note diplomatiche e allo strumento spuntato delle sanzioni che, come ormai ampiamente dimostrato, si abbattono prevalentemente sulla vita dei cittadini del paese colpito, rinsaldano la retorica nazionalista del regime e inaspriscono la persecuzione dei suoi critici. Sanzioni peraltro assai prudenti nel salvaguardare gli interessi economici dei sanzionatori.
La prima memoria che salta agli occhi è, se non proprio un’assuefazione all’orrore, quel sentimento di impotenza, quel non sapere da dove incominciare, che deriva dal sentirsi spaesati e sopraffatti dalla marcia trionfante della dominazione violenta nel mondo e dal moltiplicarsi delle derive autoritarie: il Myanmar, l’Afghanistan talebano, il sultanato di Erdogan e la sua espansione bellica in Siria, lo Yemen, l’Arabia e gli Emirati che comprano verginità al mercato del Parlamento europeo.
Solo un discorso universalistico e fondato sulla trascendenza, come quello della Chiesa riuscirebbe a tenere insieme (quasi) tutto questo, senza peraltro spingersi troppo in là nella legittimazione dello ius resitentiae. In Iran, tuttavia, questa la sua specificità, è in corso non una guerra ma una sollevazione di massa non più inerme. Una rivoluzione democratica e radicale senza partito, che comunque si prefigge di andare fino in fondo.
La seconda remora da cui guardarsi è quel purismo che diffida dei caratteri inevitabilmente spuri di ogni grande sommovimento sociale e sobbalza vedendo sventolare tra i manifestanti qualche bandiera monarchica. E che, in questo caso con qualche ragione in più, teme quell’eterogenesi dei fini, che ha mandato in malora rivoluzioni e lotte di liberazione, compresa la rivoluzione iraniana del 1979. Ma il pessimismo storico non è certo argomento che possa essere messo in campo per negare sostegno a chi si batte contro l’oppressione.
La terza remora, tenacissima e insidiosa, è il timore di ritrovarsi dentro un movimento di solidarietà “generalista” e indifferenziato che comprenda fanatici dell’atlantismo, adoratori del neoliberalismo, sacerdoti dell’assoluta perfezione dei modelli occidentali, antislamici e partiti passepartout. Tutti insieme a strepitare contro il “medioevo” dei mullah, incensando nel contempo la propria progredita modernità.
Non sarebbe impossibile, tuttavia, proteggersi da questa palude larga, prendendo l’iniziativa, affermando una idea non subalterna di democrazia confliggente e adottando pratiche radicali di lotta prive di tatto e in contrasto frontale con l’autocelebrazione occidentale.
La quarta memoria, che riguarda gli epigoni più o meno tetragoni del terzomondismo, consiste in un sospetto di fondo che effettivamente vi sia, come sostiene il regime di Teheran, qualche zampino occidentale dietro le rivolte. E che, sia pure in una soffocante forma teocratica, l’Iran contrasti comunque efficacemente l’imperialismo americano in Medio oriente e mantenga una ostilità senza compromessi nei confronti dello Stato di Israele.
Questo genere di considerazioni ha spinto alcune frange della sinistra radicale a seguire il fondamentalismo sciita anche in quel percorso che cancellava brutalmente le componenti laiche e socialiste che avevano decisivamente contribuito alla cacciata dello Shah nel 1979. Seguendo la sciagurata dottrina che ha legittimato anche le peggiori dittature purché fossero schierate contro gli Stati uniti.
Nei prossimi giorni continueremo probabilmente ad assistere a esecuzioni capitali e alle violenze di una milizia pretoriana non dissimile dai Tontons Macoutes che terrorizzarono la gente di Haiti durante la dittatura dei Duvalier.
Uno scenario talmente orrorifico da cominciare ad aprire qualche crepa e qualche distinguo anche ai vertici della gerarchia religiosa in Iran. Sarebbe dunque l’ora, superando timori e resistenze, di amplificare al massimo la voce e il peso politico della rivolta attraverso una grande mobilitazione dal basso, a partire dalle studentesse e dagli studenti e da quei movimenti già attivi che alle ragioni di questa insorgenza non sono estranei e non possono essere indifferenti.
MARCO BASCETTA
Foto di Lara Jameson