È indubbio che l’unico obiettivo del decreto legge sull’immigrazione, approvato dal consiglio dei ministri, è aumentare il consenso della Lega e la popolarità del suo leader. Continuando a usare sempre lo stesso schema, che indubbiamente funziona: per risolvere i problemi del Paese e degli italiani bisogna sottrarre diritti e libertà alle persone di origine straniera. Le due cose in realtà non hanno alcun collegamento, se non in negativo, perché limitando i diritti di alcuni si finisce per indebolire quelli di tutti. Tralasciamo i profili d’incostituzionalità, che saranno oggetto d’interventi ben più qualificati del mio.
L’intervento più pesante riguarda l’accesso al diritto d’asilo e il sistema d’accoglienza pubblico. L’art.1 del decreto Salvini abroga un titolo di soggiorno che copre tutti quei casi che non ricadono nella Protezione Internazionale che riconosce un titolo di soggiorno di due tipi: il primo viene concesso nei casi in cui c’è persecuzione personale da parte di un governo, per ragioni politiche, religiose, di orientamento sessuale, come prevede la Convenzione di Ginevra e la Direttiva europea che l’ha trasformata in legge in tutti i Paesi dell’Ue; il secondo quando la persona che fa domanda d’asilo fa parte di un gruppo sottoposto a rischi per la sua vita o a persecuzioni (è il caso delle minoranze religiose in molti Paesi o, ad esempio, dei giovani eritrei che fuggono perché obbligati ad un servizio di leva a vita dal dittatore Isaias Afawerki). Per gli altri c’è l’umanitario. Parliamo di migliaia di persone perché, com’è ovvio e come previsto nella legislazione della quasi totalità dei Paesi dell’UE, la casistica è molto varia. Si tratta di soggetti che rientrano nella previsione molto ampia dell’art.10 della nostra Costituzione e nel divieto, previsto dall’art.3 della Cedu, di trattamenti disumani e degradanti ai quali potrebbero essere sottoposti se rimpatriati.
È evidente che la cancellazione di questo titolo di soggiorno comporterà l’aumento dell’irregolarità e quindi dell’insicurezza diffusa e, soprattutto, dello sfruttamento lavorativo con nessun diritto per i lavoratori e con meno entrate per lo Stato. Inoltre aumenterebbero le controversie e i ricorsi con ulteriore aggravio della spesa pubblica sia per l’impatto sul sistema giudiziario che per l’allungamento dei tempi d’accoglienza obbligatori. Altro che interesse dell’Italia.
La seconda questione riguarda il sistema d’accoglienza pubblico Sprar. Il decreto ne limita l’utilizzo ai soli titolari di permesso di soggiorno e ai minori, ossia a chi ha già avuto una risposta. In pratica gli Sprar diverrebbero una soluzione marginale, contraddicendo quanto finora affermato da tutti i governi e dalla stessa Legge 142 che disciplina questa materia. Ciò vuol dire che gran parte delle persone ora accolte andranno a incrementare quel sistema, in gran parte gestito da privati, che viene assegnato con gare d’appalto che non prevedono alcun ruolo degli enti locali e nessun legame con il territorio.
Già oggi la mancanza di coinvolgimento dei comuni e dei territori per più del 70% dei posti disponibili ha determinato fenomeni di corruzione e di spreco, anche per l’assenza di trasparenza dei conti e di scarsa o inesistente competenza di gran parte dei soggetti coinvolti. In molti casi si tratta di privati senza esperienza che forniscono solo servizi di vitto e alloggio, senza alcuna attenzione alle persone accolte, senza alcun legame con il territorio.
I progetti Sprar sono invece rendicontati in maniera trasparente e ogni singola spesa è rimborsata solo se effettuata. Al contrario l’accoglienza gestita dalle prefetture in via straordinaria (Cas: Centri di Accoglienza Straordinaria), prevede solo una fatturazione mensile sulla base del numero di persone e di un moltiplicatore pro capite, pro die. È evidente che chi si aggiudica la gara d’appalto in questo caso ha, legittimamente, come in tutte le gare dello stesso genere, l’obiettivo di produrre utili e non di occuparsi delle persone e delle comunità che le accolgono.
Il governo con questo decreto intende sostenere una tesi che contraddice le direttive europee: i percorsi d’inclusione e integrazione sociale riguardano solo chi ottiene una risposta positiva dalle Commissioni. Gli altri vanno solo nutriti e ospitati in attesa di sapere che fine faranno.
Un’idea tutta strumentale che continua promuovere un’immagine negativa dei richiedenti asilo, peraltro oramai ridotti a pochissime migliaia. Secondo il Ministro della Propaganda sono tutti approfittatori, “clandestini” come li chiama con disprezzo e cattiveria.
Senza un’accoglienza dignitosa e fin dal primo giorno indirizzata all’obiettivo della responsabilità e dell’autonomia degli ospiti, quindi con strumenti per l’integrazione e personale competente, il risultato è che i tempi si allungano, l’impatto sociale è negativo, aumenta il razzismo e la frustrazione delle persone accolte. Tagliare la spesa, tagliando i servizi, avrà una ricaduta negativa sui comuni perché aumenterà la conflittualità e il disagio sociale, di cui si dovranno far carico i sindaci con risorse pubbliche locali.
Per questo è importante che da subito, raccogliendo l’appello del manifesto, l’Italia che non ci sta, che rifiuta il razzismo e ritiene che il diritto d’asilo, i diritti umani, l’uguaglianza, siano fondamenti della democrazia e non disponibili sul mercato del consenso, si mobiliti, a partire dai territori e dalle centinaia di esperienze positive di accoglienza e integrazione diffusa nel nostro Paese. Inclusa quelle delle nuove generazioni di origine straniera che questo decreto colpisce rendendo più difficile acquisire la cittadinanza. Una risposta di civiltà per riprendersi la parola e fermare la barbarie e la cattiveria crescente.
FILIPPO MIRAGLIA
foto tratta dalla pagina Facebook de “il manifesto”