Le analisi politiche, le interpretazioni strategiche delle mosse dei governi, così come i piccoli tatticismi di chiara matrice neonazionalista a volte ingannano e inducono ad una sopravvalutazione sia delle intelligenze singole, sia di quelle più collettivamente definibili entro gli ambiti, ad esempio, di una maggioranza di governo che si fa, via via che il tempo passa, sempre più strutturale nella sovrastruttura istituzionale.
Quindi, nel momento in cui un esecutivo diviene un tutt’uno con gli affari soprattutto privati che rappresenta, scostandosi ovviamente dal suo ruolo di gestore e amministratore della pubblica cosa, dello Stato pur facendo parte dello stesso, in quel preciso istante si consegna ad una logica del potere per il potere. Si tende, quindi, a ritenere che la volontà politica sia discernimento dei problemi, ricerca delle soluzioni nel massimo interesse pubblico. Tutto il contrario.
Già Marx ed Engels scrivono e ribadiscono più volte nelle loro opere che un governo è, in fin dei conti, nonostante tutte le buone intenzioni che possa rappresentare ai suoi elettori, un “comitato d’affari” della classe dominante. Ai loro tempi si chiamava “borghesia”, oggi possiamo definirla “imprenditoria“, “grande industria“, “multinazionali“, “alta finanza“. Se ritenessimo presidenti, primi ministri e ministri stessi degli impermeabili ed imperturbabili, indefessi paladini della giustizia sociale, quindi se pensassimo che, solo per il fatto che una costituzione lo prescrive, debbano perseguire l’interesse pubblico, ci renderemmo prigionieri di una pia illusione.
Se, d’altro canto, pensassimo che l’ufficio del governo è solamente quello e non può avere nessun intento riformatore, capace di essere quindi la sintesi tra interessi diametralmente opposti (impresa e lavoro, profitto e beni comuni), restringeremmo troppo il campo delle possibilità da parte della politica istituzionale di essere una leva di cambiamento: checché se ne dica o scriva, struttura economica e sovrastruttura politica sono sovente in contrasto tra loro e si contendono appunto una egemonia anche culturale per poter fare scelte molto differenti.
Quindi, quei comunisti che sono certissimi dell’irrilevanza, nella costruzione dell’alternativa rivoluzionaria al capitalismo, del ruolo dei parlamenti, dei governi e persino della giustizia, fanno della loro lotta antisistemica un presupposto dogmatico che impedisce di separare l’obiettivo minimo dell’oggi e del domani da quello di più lungo corso che include una trasformazione sociale a cui si può arrivare per differenti percorsi. Il tutto senza tradire affatto il presupposto ideologico in afferenza con quello che appare – spesso ingannevolmente – più pragmatico dell’azione di governo.
Alcuni movimenti e partiti politici della sinistra di alternativa si ostinano a considerare, ad esempio, le elezioni un mero passaggio di consultazioni popolari che non hanno poi un effettivo ruolo nel mutamento delle condizioni di vita della povera gente e degli sfruttati moderni. Non hanno così torto come può sembrare. Ma non hanno nemmeno ragione da vendere o, se vogliamo, da regalare. Nessuno probabilmente ha una verità in tasca: ma quello che è abbastanza certo è che là dove la sinistra riesce a conquistare un certo potere istituzionale, datole dalla delega popolare, le strutture economiche si agitano.
Perché non tutto è riconducibile ad una dialettica tra rapporti di forza, ad uno scontro oggettivamente reale tra capitale e lavoro. Non parliamo di categorie astratte: il capitale è fatto dalle azioni dei capitalisti che giocano sulla vita di miliardi di persone, di animali non umani e della natura per preservare i loro privilegi. Il lavoro è la forza-lavoro, sono tutte e tutti coloro che, nonostante il “superamento delle ideologie” che comprendevano concetti come “classe sociale” e “lotta di classe“, producono la ricchezza che viene disegualmente spartita.
La lotta sociale e la lotta politica sono un tutt’uno. La lotta politica, quindi, per alcuni partiti comunisti è concreta se considera il parlamentarismo come una caratteristica endemica del mondo liberale, borghese, di uno Stato praticamente delle imprese che fa fare al moderno proletariato, alla grande massa dei precari e del disagio sociale diffuso, quello che vuole mediante l’azione dei governi, con finte riforme che distribuiscono soltanto le misere briciole di una economia sempre e soltanto ispirata dal dogma iperliberista delle istituzioni piegate al privatismo a tutto tondo.
Ed è così. Ma fino ad un certo punto. È stato così, purtroppo, anche quando il centrosinistra ha governato l’Italia per brevi periodi negli ultimi trent’anni. Che la destra sia conservatrice e, quindi, permetta all’imprenditoria e all’alta finanza di avere il miglior risultato possibile per i profitti nella gestione del pubblico mediante una visione nettamente privata di tutto e tutti, è nell’ordine coerente della sua politica. Ma, per l’appunto, parliamo di politica e quindi di idee.
E se parliamo di idee, necessariamente facciamo riferimento a persone in carne ed ossa che, oggi, vorrebbero rappresentare una nuova classe dirigente. L’inadeguatezza di questa è tale da far dire che al governo del Paese c’è più che altro una masnada di individui che hanno oggi l’opportunità di costruire, su un revanchismo che sognavano da tempo, un livello di retroattività inculturale veramente spaventoso. Per questo fanno male i partiti comunisti che considerano le elezioni, la dialettica politica e parlamentare come un qualcosa di aprioristicamente corrotto dai tratti capitalistici, inutile strumento di trasformazione sociale, a sottovalutare il tutto.
Le scelte politiche sono scelte della classe dominante là dove un governo ha tutti gli spazi possibili per agire in questo senso. Ma, sebbene il potere economico sia uniformante nei confronti di quello politico, ci insegna la Storia che non siamo davanti a dei moloch indistruttibili. Il riformismo di sinistra tende ad aggirarli, provando a mitigare gli effetti devastanti delle richieste padronali nei confronti della grande massa del mondo del lavoro.
La sinistra che rifiuta, e giustamente, di essere riformista si comporta in due modi: 1) cosciente del suo ruolo, prova a realizzare il possibile oggi sulla base di un programma di alternativa del domani anche tramite le istanze parlamentari, oltre alla lotta sindacale e all’organizzazione popolare; 2) esclude dal novero delle possibilità di cambiamento tutti quelli impegni istituzionali perché riflesso di un condizionamento imprenditoriale e finanziario troppo potente per essere anche solo scalfito dagli equilibri politici interni ad un consesso certamente democratico ma prigioniero della logica del profitto e del mercato.
Senza scivolare in quello che è stato definito da Engels come il “cretinismo parlamentare“, per cui tutto può risolversi entro i termini dell’istituzionalizzazione della politica e nella sua rappresentanza entro, appunto, le aule dei parlamenti e delle assemblee nazionali, occorre avere ben presente che sempre e soltanto a partire da un fondamento democratico, da una repubblica in quanto tale, come “res publica“, si può continuare a migliorare la lotta sociale, per i diritti del mondo del lavoro, per quelli civili, per quelli umani.
Ciò non significa cambiare opinione sul fatto che lo Stato è, entro i termini del sistema economico dato, un costrutto che risponde alle logiche del mercato. Ovvio! Ne è parte, ma come lo siamo noi stessi che, ogni giorno, andiamo a fare la spesa, ci lasciamo convincere da scelte che, anche quando pensiamo siano “alternative“, subiscono tutta l’influenza del capitalismo: questa internità però non è totalizzante al punto da riuscire ad annientare la coscienza critica, la capacità non soltanto di immaginare, ma di praticare ogni azione possibile che vada in direzione opposta a quella del capitale.
Se la presenza di un partito comunista in un parlamento è di disturbo alle altre forze politiche che sono compiacenti nei confronti del regime delle merci e dei profitti, quella presenza è utile all’avanzamento della più complessa e generale lotta verso un mondo altro da sé stesso. Basti soltanto pensare a tutte le modificazioni sostanziali, e che riguardano anche la sfera privata di ciascuno di noi nella vita quotidiana, introdotte dal governo Meloni in ambiti come quello scolastico.
In perfetta identità di vedute con la minoranza ipercattolica e vandeana dei pro-life, Valditara vorrebbe introdurre un “consenso informativo preventivo” unanime da parte dei genitori per stabilire se si può in classe parlare di questo o quello: tanto per stare in tema, il punto è sempre quella che viene chiamata la “teoria gender“, una vera e propria ossessione della destra moderna. Viene esclusa qualunque possibilità di confronto su temi di stringente attualità che, quindi, diventano qualcosa da escludere, da obliare, da non considerare.
Ciò che da fastidio viene messo al bando. In Ungheria, il parlamento a maggioranza orbaniana ha decretato che i pride sono fuorilegge perché darebbero cattivissimi esempi ai bambini, lasciando loro pensare che la normalità possa essere anche quella delle persone rinchiuse nell’acronimo LGBTQIA+. Le scelte politiche si pagano e la paghiamo tutte e tutti. Quindi il compito dei comunisti e delle comuniste oggi non è disprezzare la rappresentanza parlamentare; non è nemmeno quello di fare dell’aspirazione governista l’unica bussola della propria lotta fuori e dentro le istituzioni. Ma è saper distinguere, saper entrare nelle contraddizioni enormi di questi tempi.
Ed è quindi aggiornare l’agenda ideologica con un mutamento epocale del capitalismo del XXI secolo: la furia liberista si è riscoperta globale nel multipolarismo incedente attraverso il matrimonio con la destra più conservatrice sul piano economico, più nazionalista e repressiva su quello politico, smaccatamente omofoba e xenofoba. La risposta progressista avrà un carattere anche rivoluzionario se saprà tenere insieme la volontà dell’alternativa con la ricerca della concretizzazione delle proprie idee, ed anche dei propri sogni, in ogni contesto sociale, civile, culturale.
La nostra critica nei confronti dell’ambiguità del centrosinistra rimane fino al momento in cui la sinistra moderata non farà delle scelte chiare: sulla guerra, sul riarmo e, quindi, sul lavoro e le dinamiche che oggi muovono le catene produttive nella riconversione della produzione in chiave bellica. Ma non dobbiamo, al contempo, adottare una duttilità di analisi che vada oltre il dogmatismo delle categorie fino ad oggi utilizzate: riformisti e rivoluzionari. Gli uni non saranno mai gli altri, ma la separazione pregiudiziale è anacronistica. Oltre che impolitica e utile solo ad un feticismo concettuale tutto mentale.
Lavorare per una proposta di convergenza, nelle rispettive autonome posizioni storiche ed anche attuali, è un dovere civico, civile, democratico e popolare. Queste destre di oggi ci riportano indietro di decenni. Vogliono farci rivivere in un mondo, in una Europa e in una Italia in cui la libera espressione individuale sia non più una premessa della autodeterminazione di tutte e tutti, ma una condizione molto limitata (e quindi non più libera) di esistenza “particolare“. La reintroduzione di un “maggioritario etico” è la postulazione dello Stato etico.
Al capitalismo tutto ciò interessa se è utile al mantenimento di un ordine che consenta l’accrescimento delle fortune della classe dirigente. Le destre che garantiscono ciò sono, quindi, libere di agire come meglio credere nel regolare l’esistenza di ognuno di noi. Non ne hanno il diritto nella misura in cui siamo noi a revocargli questa possibilità. E per avere più giustizia sociale bisogna anche avere più giustizia civile. Più umanità, più animalità, più rispetto per il mondo.
La rivoluzione è quotidiana, è un processo senza soluzione di continuità: a volte è anche rottura di fase, divisione temporale netta. Oggi ci troviamo in cambiamento epocale: il multipolarismo ne è la dimostrazione. Le guerre ne sono la conferma. Il riarmo ne è la triste prova del nove. Per questo il nostro ruolo di sinistra di alternativa deve potersi esprimere a tutto tondo, liberandosi dalle schematizzazioni sclerotizzanti: parlamentarismo, antiparlamentarismo, riformismo, radicalismo, moderatismo, estremismo.
Guardiamo alla concretezza del cambiamento retrivo che viviamo: è difficile, certo, pensare ad un cambiamento sociale attraverso alleanze con forze politiche che finiscono per negarlo ante litteram. Tuttavia se non siamo noi comunisti a mettere per primi in essere nuove leve di contraddizione, agendo anche nei confronti di quelle forze con alleanze che loro non vorrebbero fare, chi lo potrà fare? Dove c’è una possibilità per fare passi nella direzione dell’aumento dei diritti e delle libertà, lì dobbiamo stare, lì dobbiamo andare, lì dobbiamo concretamente lavorare.
MARCO SFERINI
21 marzo 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria