Non ci è dato sapere quale scelta farà Barbara Spinelli in merito al seggio da occupare a Strasburgo, visto che sembra comunque ormai certo che opti per questa decisione. Ma se questo implica certamente delle conseguenze all’interno della Lista Tsipras e rischia di minarne la sua stabilità fondata già su un precario equilibrio, quello di cui dovremmo preoccuparci maggiormente è semmai la capacità delle sue componenti di reggere all’urto.
Non esisterebbe, infatti, alcun problema se la storia recente di questi anni non avesse così ridimensionato la sinistra italiana da renderla residuale e impotente davanti agli avvenimenti politici e sociali che hanno così trasformato la vita di tutte e tutti noi.
Questo significa dare una determinazione completa e complessiva al valore della rappresentanza di sinistra in un Paese dove, lo dico da tempo, la domanda di sinistra è venuta meno e rimane ancora agganciata a gruppi di intellettuali che giustamente riconoscono solo nella giustizia sociale, nella solidarietà e nell’eguaglianza i fondamenti di un cambiamento radicalmente forte e incontrovertibile se si vuole uscire dalla violenza cieca del liberismo che divora le esistenze dei più deboli, dei meno abbienti, di un moderno proletariato che fatichiamo a chiamare così perché ciò che vediamo ogni giorno in televisione ci parla di “ceto medio” e del fatto che tutto ruoterebbe intorno a questo elemento sociale.
Abbiamo perso per troppo tempo e non abbiamo certamente ottenuto una vittoria politica nel superare per ottomila voti e rotti quel quorum benedettissimo che era, più che giustificatamente inteso, lo spauracchio di tutta la campagna elettorale che faceva pendere una spada di Damocle sul grande lavoro dei territori per affermare una presenza di sinistra italiana nel Parlamento europeo.
L’asticella del 4% è stata superata ma non sono venute meno le deficienze, le lacune e le obiettive differenze che esistono e permangono nei soggetti sia partitici che non che formano L’Altra Europa con Tsipras.
Rifondazione Comunista ha lanciato l’idea di una formazione che si ispiri come modello organizzativo a quello che sembra avvicinarsi di più alle contraddizioni della sinistra italiana, per metterle assieme e provare a risolverle: Izquierda Unida spagnola. Syriza è un modello ancora differente: dopo alcuni anni di rassemblement dei partiti e soggetti politici che si erano uniti in questa federazione, è divenuta un partito unico e ha quindi al suo interno solo delle correnti più o meno organizzate anche attorno a riviste che rivendicano determinate prese di posizione e linee da proporre di volta in volta.
Un vertice comune e una base differenziata che trovano una sintesi in un minimo comun denominatore che ha però fatto grande la sinistra greca e che la proietta verso una probabile esperienza di governo ad Atene, per tutta la vecchia patria di Socrate, Platone, Aristotele e – non si può non citarlo – di Pericle.
Izquierda Unida, invece, non è mai arrivata a percentuali tali da contendere il governo della Spagna a popolari e socialisti. Ottiene percentuali degnissime di una sinistra di alternativa (oltre il 12%) ma ovviamente lontane dal poter essere, non tanto rappresentare, un terzo polo di governo. Tuttavia, Izquierda Unida è per noi, su un piano meramente organizzativo, l’esempio migliore.
Dovremmo smetterla di appellarci a dei modelli per costruire la sinistra italiana di alternativa. Così dovremmo smetterla di immaginare, nomi e simboli. Dovremmo cominciare invece a ragionare sui programmi e, di più, sul programma: iniziamo a parlare al singolare come elemento di sintesi fattiva di una comunità che inizi a sentirsi veramente unita.
Se una sinistra in Italia deve rinascere non può avere i caratteri che ha avuto ad esempio Sinistra Ecologia Libertà in questi anni: un progetto nato da quattro scissioni distinte di diversi partiti politici, per dare vita ad una “moderna sinistra” che di moderno aveva solamente la smisurata ambizione del suo fondatore di poter concorrere alle primarie del centrosinistra con in dote mezza Rifondazione Comunista, un pezzetto dei Verdi, il correntone DS trasformato in “Sinistra Democratica” (l’anagramma di un acronimo, l’inversione di due lettere a volte fa miracoli nel potersi dire “nuovi”…) e qualche fuoriuscito dal Partito dei Comunisti Italiani.
Il risultato è stato l’indebolimento di tutte queste forze, la creazione di un progetto che è fallito perché non è fallito invece l’altro progetto: il Partito Democratico. Se c’è stato un momento, anche solo uno, in cui si è pensato che il PD fosse finito dopo la sconfitta di Veltroni contro Berlusconi o dopo quella di Bersani, impossibilitato dal muro grillino nel realizzare un esecutivo, ebbene quel pensiero sarebbe stato sbagliato, un errore di analisi, di calcolo. Però giustificabile, perché all’epoca nessuno poteva prevedere l’accelerazione renziana nell’occupazione sia della segreteria nazionale del PD sia del tavolo tondo di Palazzo Chigi.
Dunque il PD regge, si rafforza e la sinistra moderna di Vendola va in frantumi. Succede, allora, che l’unità sotto cui dormivano carsici i differenti affluenti di un unico fiume nato sotto l’egida del presidente della Puglia, si sgretola e vengono fuori i malumori quando un congresso, del tutto legittimamente e nel pieno titolo della sua sovranità, decide di sconfessare la relazione introduttiva del leader e di abbracciare Tsipras invece che il socialdemocratico Schulz.
Apriti cielo, terremoto e conseguente scelta obbligata.
Gli eventi degli ultimi giorni sono noti a tutte e tutti. Ma tutta questa rievocazione serve sia per rispettare il dibattito interno a Sel in queste ore, sia per mettere bene in evidenza che la sinistra che non cerca una alternativa antiliberista, anticapitalista è sempre oggetto di compromessi che alla fine diventano compromissioni con un potere politico che deriva da una simbiosi necessaria, incrollabile perché “naturale” con quel ceto medio che si farebbe meglio a chiamare col vecchio nome di “borghesia”. Una imprenditoria italiana che cerca un suo spazio e che l’ha trovato con Matteo Renzi.
Gli appelli ad una conversione di rotta politica da parte del presidente del Consiglio, su spinta di una sinistra divisa e non in grado di creare un minimo comun denominatore programmatico, quindi una base di sintesi su cui poggiare la costruzione di un soggetto federativo come Izquierda Unida (dove, lo ricordo, aderiscono anche larghe componenti dell’ambientalismo iberico, mentre in Italia i Verdi decidono di fare corsa solitaria e di sganciarsi con Bonelli dalla caratterizzazione “sinistrorsa” che avevano avuto con Pecoraro Scanio e con Grazia Francescato) sono appelli al niente: come può pensare Vendola di smuovere il legame che c’è tra il governo Renzi e Bruxelles?
O si tratta di ingenuità politica o, piuttosto, si tratta del tentativo di tenere un canale aperto, una uscita di sicurezza verso un PD che ora ha dalla sua quasi il 41% del 50% dell’elettorato italiano, nel caso la Lista Tsipras dovesse naufragare.
Questo doppiogiochismo è tipico dei riformismi, mentre viene scambiato per settarismo e per difesa dei recinti la coerenza di chi sostiene dal principio la figura di Alexis Tsipras (dal congresso di Madrid della Sinistra Europea) e, sebbene con documenti diversificati da virgole più che da proposte alternative, intende marciare unitamente nel progetto di edificazione di una sinistra italiana unita ma plurale.
Credo ci si debba rassegnare al fatto che non può esservi una vera sinistra senza i comunisti. Perché i comunisti sono l’anima non più pura di questa sinistra, di qualunque sinistra, ma sono – come diceva Marx – “la parte progressiva che più spinge per avanzare”. Non serve scomodare il Manifesto del 1848 per proporre ancora oggi questa analisi, ma tuttavia fa bene ricordare che è sempre stato così sia negli anni di pace che in quelli di guerra, sia nei momenti meno difficili che in quelli complicati della vita dei comunisti e del progressismo italiano.
Per questo è dato dire che ogni formazione politica di sinistra che nascerà non potrà fare a meno dei comunisti, ma così – al contempo – non sarà possibile mai autorizzare qualcuno a dire che l’esperienza storica dei comunisti è finita solo perché sono mutate le percezioni antropologico-politiche della società italiana.
E questo per il semplicissimo motivo per cui esistono le ragioni di quella ricerca di una rottura rivoluzionaria che è un percorso lunghissimo, ma che non può non essere l’obiettivo di un vero cambiamento sociale a cento ottanta gradi di questo mondo, senza il quale continueremmo ad interrogarci sulle ragioni della crisi economica ora in America, ora in Europa e domani in Asia senza comprendere che viviamo nel sistema capitalistico e che l’abbattimento di questo sistema resta l’unica ragione per cui oggi noi comunisti siamo disposti senza se e senza ma a costruire una Izquierda Unida in Italia. Mettendo da parte momentaneamente i nostri simboli e i nostri nomi, ma sempre e solo in nome di una rinascita del movimento anticapitalista. In Italia, in Europa e ovunque nel resto del mondo.
MARCO SFERINI
5 giugno 2014