Come si è passati dal Pci a Grillo

Il pasticciaccio romano. Emanuele Macaluso se la prende con Sabrina Ferilli, Fassina e tutti quelli che hanno preferito Raggi al ballottaggio. Ma occorrerebbe incalzare gli eredi che hanno condannato al rogo la cultura politica dei comunisti

Traendo spunto dai pasticciacci romani Emanuele Macaluso dedica molte delle sue pagine più recenti a rimarcare l’incompatibilità strutturale, di cultura politica lui dice, tra chi si riconosce nella vicenda dei comunisti italiani e il M5S. Se la prende per questo con Sabrina Ferilli, con Fassina e migliaia di elettori che hanno preferito Raggi al ballottaggio scandendo che i comunisti, eredi di una tradizione che enfatizza il primato della politica e il ruolo democratico dei partiti, non votano per Grillo che i soggetti collettivi vorrebbe estirparli alla radice.

Che all’origine del M5S ci sia una ambiguità costitutiva, che ne inibisce le capacità ricostruttive, è indubbio. La contestazione della forma partito, e la celebrazione del non-partito come momento d’azione sostitutivo rispetto ai canoni della degenerata classe politica, approda a meccanismi neofeudali di fedeltà che si prestano a cadute anche fragorose quando si giunge alla prova del governo. Il partito è una regolarità storica del moderno, non è agevole garantire controllo, coesione, condivisione, gestione efficace del potere senza la costruzione di una organizzazione che conferisce un senso a una vicenda collettiva di partecipazione, di decisione e di lotta.
Ciò detto, a proposito di una negativa inclinazione a estirpare la rappresentanza e la mediazione politica, non si può non constatare, con una preoccupazione di sistema, l’incendio doloso che la stampa, la tv hanno appiccato attorno al caos romano preso come occasione per inseguire un progetto di azzeramento dell’opposizione, di quella che esiste, non di quella che si vorrebbe. Sul Corriere Antonio Polito (esemplare del trasformismo italiano, che inizia a scrivere sul foglio fondato da Gramsci e poi, solo alcune settimane fa, accosta le bandiere rosse e le croci uncinate!) allestisce un processo sulla democraticità del M5S e sentenzia che per la sua venatura utopica si tratta di un corpo estraneo alla democrazia. Bisogna però procedere con estrema cautela nel distribuire le patenti di democrazia in un paese che ha espresso governi che hanno scritto una legge elettorale annullata dalla Consulta per palese incostituzionalità e hanno modificato 47 articoli della Carta confidando sulla arbitraria volontà di potenza di un piccolo partito che ha solo il 25% dei voti.

Quando la contesa per il voto si svolge con mezzi pacifici, e senza il ricorso alle pallottole, il requisito minimale della democrazia si intende rispettato. Altri ingredienti sfumano, ma questa mancanza di cose sostanziali vale per tutti i soggetti in campo, non solo per il M5S. Lo schema di Macaluso è che da una parte ci sono i partiti, che andrebbero difesi nella loro funzione, dall’altra un movimento di insubordinazione che minaccia la tenuta dell’ordinamento. Questa fotografia però non risponde alla reale condizione della politica. E’ vero che la vicenda romana svela un centro di comando opaco che si impone nelle scelte rispetto alle formali competenze di cariche istituzionali espresse dal voto popolare. Ma perché il sindaco regolarmente eletto, Marino, chi l’ha sfiduciato davanti al notaio?
Lo stipendio del capo di gabinetto del Campidoglio ha consentito alla stampa di gettare la prima pietra dello scandalo. Il motivo di riflessione, più ancora che i soldi ricevuti dalle toghe in prestito alla politica (che ricevono ovunque il medesimo stipendio), dovrebbe essere però questo: perché tutti i sindaci, governatori, presidenti del consiglio sentono la necessità di avere come uomo di fiducia una toga? Perché familiari di magistrati ottengono consulenze nelle amministrazioni? Per assicurarsi una pax territoriale al riparo di sguardi indiscreti?

Una politica a corto di legittimità etica affida al magistrato il compito di attestazione fiduciaria. Spesso è una mera operazione di facciata che risparmia la grande fatica di riformare la politica sul serio. Ma c’è anche dell’altro. L’uomo di potere avverte un bisogno di protezione dinanzi al ginepraio normativo che con facilità estrema espone il decisore al reato fantasma dell’abuso di ufficio. Oltre a come districarsi nella complessità procedurale, qualcosa d’altro però induce il politico di oggi a intrattenere un rapporto riservato con un magistrato: desiderio di carpire informazioni, anticipazioni, soffiate?

Che le nomine, le carriere siano rimaste del tutto coperte da misteri (tra primarie in rete e comando di Casaleggio) anche nella esperienza dei 5 stelle è evidente. Il ruolo dell’ufficio legale vicino alla destra silenziosa nella promozione, selezione dei collaboratori del sindaco ha dell’inquietante. Ma queste pratiche erano abituali nei cosiddetti partiti normali. Cosa c’è di politico, di pubblico nel percorso di carriera del ministro che fu reclutato sulla base della “inesperienza” e quindi di frequentazioni private con i potenti di turno? Quali rapporti amicali legano un uomo-chiave di mafia capitale, ripreso dagli inquirenti mentre conteggia mazzette di cinquemila euro ciascuna, e centri di comando del Pd romano e nazionale? E i suggerimenti del costruttore capitolino, proprietario di un foglio assai influente, non sono forse all’origine della rinuncia preventiva alla poltrona di sindaco di un candidato destinato al successo annunciato e però benevolmente indotto al buen retiro alla Pisana?

I centri di interesse influenzano la politica, la dirigono, da quando non c’è più il Pci non esiste alcuna autonomia della politica dagli affari, dai signori del cemento e dagli imprenditori dell’immaginario. In un’Italia senza partiti, con gruppi di potere che manovrano le decisioni, orientano le carriere e determinano le politiche, pretendere di mettere sotto processo solo il M5S per lesa democrazia pare esagerato. La stampa che divulga mail compromettenti «del piccolo borghese Di Maio» lo fa per una vocazione al giornalismo aggressivo che non fa sconti al potere o perché è sensibile alla cura di interessi di proprietari che hanno mire nei piani regolatori, nell’energia, nella scelta delle olimpiadi? Che forse la carriera politica di Romano ed altri non è intrecciata organicamente dalla rete privata di Montezemolo? E dietro la scalata ostile al Pd iniziata a Firenze che ruolo hanno avuto la massoneria toscana, i gruppi finanziari, i potentati stranieri, le truppe di Verdini?

Macaluso riconosce che Renzi esprime un leaderismo ridicolo e che sia del tutto inadatto alla funzione di governo. E però nella catastrofe italiana rappresenta il male minore. Si tocca, nel dover scegliere il nemico meno costoso, il volto tragico delle opzioni politiche in tempi di crisi, quando tutto è incerto e franano i punti di appoggio. Che Renzi sia solo il pericolo minore è però il nodo del contendere. Con gli interessi economici che accarezza, con lo stile retorico che diffonde dosi massicce di antipolitica, con lo strumentario della menzogna permanente, con le pratiche delle mancette che escludono la grande politica, con la continua manipolazione del reale, con l’attacco al sindacato, con l’abolizione dell’articolo 18, con l’assalto alla costituzione in nome della lotta alle “poltrone” è difficile annoverarlo come il male minore che merita soccorso. Il male è già insediato al potere in virtù di una marcia virtuale tramite gazebo che ora cerca il plebiscito confermativo.

In questo quadro di caduta della tradizione democratica, Grillo rappresenta quello che Gramsci riteneva essere l’eterna vena dannunziana che nelle fasi critiche attraversa la politica italiana. Non è di sicuro la soluzione alla crisi, anzi, ma sprigiona domande, istanze traversali che vanno governate. Non a caso Gramsci, per arginare il fascismo, tentò, con la mediazione del vecchio legionario Giordano, persino un incontro estivo con il poeta vate, che poi saltò. Che oggi si cerchi un argine alla deriva costituzionale renziana dialogando anche con le riedizioni del sovversivismo dal basso di ascendenze dannunziane non è un vizio assurdo, è nelle corde del pensiero politico comunista addestrato, anche dal viaggio inutile di Gramsci a Gardone nel 1921, ad annusare nella situazione concreta il nemico principale. Più che prendersela con i cedimenti di Ferilli, occorrerebbe incalzare quegli eredi invertebrati che hanno condannato al rogo la cultura politica dei comunisti per poi regalare agli elettori la bella scelta tra Salvini, Berlusconi, Grillo e Renzi.

MICHELE PROSPERO

da il manifesto.info

foto tratta da Pixabay

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