Cognizione e istinto: distanti e distinti per troppo lungo tempo

La cognizione può, per lo meno oggi che molte discipline la prendono in considerazione come elemento quasi primordiale della conoscenza sempre più approfondita e fondante l’individualità specifica e, quindi,...

La cognizione può, per lo meno oggi che molte discipline la prendono in considerazione come elemento quasi primordiale della conoscenza sempre più approfondita e fondante l’individualità specifica e, quindi, l’essenza dell’essere vivente e senziente, essere considerata qualcosa di più di un semplice processo di acquisizione nozionistica dettata da una sorta di istintualità ancestrale.

L’essenza cosciente dell’individuo che percepisce il circostante e ne ha, dunque, consapevolezza, non è in contrapposizione all’istinto che, sovente, viene considerato come qualcosa di altro rispetto all’assimiliazione delle nozioni che provengono dall’esperienza. Ne fa cenno Nietzsche nell’ “Al di là del bene e del male“, ma è una intuizione che affonda nella notte dei tempi del pensiero filosofico occidentale.

Eppure si tende, con una ostinazione mai del tutto scomparsa dal campo dei pregiudizi concettuali e saccentemente intellettualistici, a mettere in regime di litigiosità la cognizione e l’intuizione, il poter sapere col poter immaginare di sapere un qualcosa di ancora largamente indefinibile. Forse il problema ha messo radici nella atavica, e un po’ stereotipata, visione contrapposta tra reale e ipotetico, tra concreto e astratto.

Per cui alla cognizione spetterebbe una familiare vicinanza con l’empirico e all’intuizione l’impulsività dell’emotività, quindi, in sostanza, tutto ciò che tende a separarsi da una oggettiva ispezione razionale, analitica e compiutamente quasi scientifica. Ma la cognizione, che anche etimologicamente è un sapere che si associa a qualcosa (dal latino “congnosco” che, a sua volta, deriva dal greco γιγνώσκω (“ghighnosco“, “io so“), non è fine a sé stessa.

Ha un ruolo individuale e sociale proprio nel momento in cui, pur senza prescindere dalla sua atavicità, da una specie di innatismo nell’essere senziente (animale umano o animale non umano che sia), esprime con una certa approssimativa esattezza il rapporto che si instaura con l’esterno da noi, con tutto quello che ci viene a contatto e da cui traiamo la successiva conoscenza che amplia il nostro essere, il nostro divenire ciò che già, in parte, siamo.

Il punto che ci interessa analizzare, più che dirimere, è quanto di cognitivo vi sia già nel soggetto senziente al momento della sua nascita. Quindi, in pratica, la sussistenza delle condizioni che premettono le capacità conoscitive immediatamente successive al concepimento e leggermente primordiali rispetto alla venuta al mondo. Argomento molto complesso, perché, cercando di rimanere nel fisico senza cadere nel metafisico, il confine di cui prima si faceva cenno, tra pensiero e realtà diviene molto labile.

Tommaso, infatti, ne tratta nelle sue opere, parlando della comportamentalità dell’essere umano. Discutere di cognizione, infatti, non vuol dire fare riferimento esclusivamente al rapporto passivo tra noi e la realtà, confinato nella etereità dei pensieri, nell’impalpabile conoscenza invisibile dei nostri cervelli. A meno di non saper leggere nelle menti di ciascuno, cosa possiamo sapere di una persona o di un animale non umano, o anche del mondo che ci sta intorno se non facciamo del processo cognitivo un mezzo per entrare in contatto con la realtà?

Il comportamento che Tommaso analizza è messo sotto questa particolare lente di ingrandimento: il modo in cui conosciamo il mondo e il modo in cui lo avvertiamo mediante i nostri sentimenti, le emozioni e ogni tipo di rimando cognitivo che ci giunge, a quel punto, come riflesso del nostro essere rispetto all’altro da noi.

Troppo spesso tendiamo a ridurre la cognizione ad un fattore esclusivamente vincolato all’indagine, all’acquisizione di informazioni come se questa azione fosse unilaterale e unidirezionale: dall’esterno al nostro interno. Trascuriamo il fatto che, nel momento in cui approcciamo la realtà, animata o inanimata che sia, noi mettiamo in moto tanti processi di causa e di effetto che si riverberano poi in ogni altra successiva azione, a cascata: da individuo ad individuo, da noi alle cose, da queste a noi.

Utilizziamo ora un termine un po’ inconsueto nel linguaggio comune, ma che ci aiuta nel provare a chiarire che cosa si intende per cognizione o, almeno, quel che vogliamo intendere scrivendo queste righe. Il termine in questione è: propriocezione. Si tratta della capacità che hanno tutti gli esseri senzienti di percepersi, quindi di percepire la propria fisicità, il proprio corpo, in un determinato spazio, in un tempo, in un contesto.

Da questa capacità deriva una cognizione di sé stessi, delle relazioni che intervengono tra noi e chi ci sta introrno. Natura ovviamente compresa. L’alterazione della propriocezione è all’ordine del giorno nei rapporti che adottiamo tra noi, in quelli che abbiamo con gli animali non umani e che pensiamo di trattare con amore, mentre li costringiamo, spesso e volentieri e (questo è un dramma vero e proprio) in assoluta buona fede, a comportarsi in modo innaturale rispetto alla loro natura.

Tanto riguardo all’istinto quanto, siccome non è in contrapposizione, al processo cognitivo a tutto tonto. Il dibattito sulla precondizione animale (ed animale-umana) rispetto a questa sensorialità profonda, quindi se sia o meno qualcosa di innato, presente nel nostro DNA, nella trasmissione genetica da genitore a figlio, da ascendente a discendente, è un dilemma tutt’ora irrisolto. La scienza forse un giorno ne darà spiegazione.

Oggi possiamo solo osservare, molto empiricamente, che ogni essere vivente, al momento della sua nascita, possiede già tutta una serie di cognizioni che non gli derivano dall’esperienza, ma che mette in pratica – appunto – istintivamente. Senza impeto, ma anche senza ragionarci. Lo fa perché gli è naturale farlo, gli è proprio. Il puledro appena nato non rimane a terra inerte, ma cerca di alzarsi e di muoversi.

Il pulcino non se ne sta rinchiuso nell’uovo parzialmente dischiuso, ma ne esce e si muove, cerca la mamma e i fratelli. Insomma, la gran parte degli esseri viventi che hanno una forma di percezione della realtà circostante, agisce tanto cognitivamente quanto istintivamente e, per questo, le parole di Nietzsche trovano conferma nel momento in cui osserviamo la natura nel suo continuo nascere, crescere, evolversi e morire. Ciclo dopo ciclo.

Dovremmo convenire tutte e tutti che l’essenza di ogni essere vivente senziente sta in questa unità tra cognizione ed instinto e che, quindi, potremmo tranquillamente riferirci a tutto ciò col termine di “istinto cognitivo“. La deformazione, l’alterazione dello stesso, ossia della capacità di esplorare il mondo con le proprie capacità, senza l’aiuto di nessun altro, dovrebbe essere quella ricchezza propriamente naturale da considerare il diritto per eccellenza del vivente, del senziente.

Ciò che, quindi, è inalterabile: il massimo della libertà possibile per noi animali umani e per gli altri animali, la maggioranza degli abitanti del pianeta. Di moda, in questi tempi pseudo-moderni, è il concetto di “comfort zone“, la zona di conforto entro la quale ci si abituerebbe a stare, rintanati in una sicurezza autoindotta che ci proteggerebbe dal resto del mondo, dalle brutture, dai disagi, dalle assunzioni di responsabilità.

Insomma, un perimetro di indolenza da cui occorre necessariamente uscire se si vuole affrontare l’insieme corposo di contraddizioni che ci attraversano ogni giorno nel tempo e nello spazio che pensiamo di dominare con la nostra presenza, con la nostra intelligenza e che, invece, il più delle volte subiamo. La scoperta del mondo è una esperienza infinta: non c’è attimo in cui non ci si sorprende per qualcosa.

Diamo per scontato quasi tutto nel mentre mettiamo in moto le nostre energie per stare in uno stato di competizione permanente e vicendevole. Invece dovremmo uscire dalla nostra zona confortevole non per gareggiare tra noi esacerbando il ruolo benefico della dialettica materialistica, dei rapporti tra cause ed effetti, ma per stimolare le diversità intuitive, per mettere a confronto le nostre capacità di istintività cognitive e rarefare pregiudizi e preconcetti.

Cesare Pavese ne “Il mestiere di vivere” osservava che le passioni sono il motore della conoscenza dell’esistente e che da esse troviamo la nostra forza motrice per acquisire sempre più cognizione (per l’appunto) di ciò che ci circonda e, inevitabilmente, quindi, in questo continuo raffronto, di noi medesimi. Il tutto dovrebbe essere utile a favorire una crescita interiore per lo stabilimento di rapporti armonici nella società.

Da questo punto di vista, il fallimento dell’umanità sta proprio nell’aver abbandonato la paropria animalità, nel pensarsi altro dal regno animale e nell’aver antropocentrizzato il mondo, considerandolo un habitat esclusivamente a misura di essere umano, ponendo al proprio servizio ogni altro essere vivente e spogliandolo di quel diritto alla libertà totale (alla propria propriocezione) che gli spetta per diritto naturale.

In gioco, in una partita così complessa, entrano poi tutta una serie di fattori legati all’empatia che sviluppiamo proprio nel contatto con le singole individualità e col mondo in quella parziale interezza che possiamo vivere nel limitrofo che ci è oggettivamente proprio e che cambia di attimo in attimo.

Il dibattito sulla capacità di provare empatia è al livello dell’approfondimento scientifico continuo per quanto riguarda gli esseri umani; mentre, almeno ancora qualche tempo fa, riferito al mondo che consideriamo “animale“, altro da noi (e non lo è), questo dibattito verteva sull’interrogativo riguardante proprio l’empatia e non la capacità di provarla da parte degli animali non umani.

Ancora oggi c’è chi si meraviglia che un pesce possa avere delle reazioni emotive. O che le possa avere un insetto o che addirittura un maiale possa provare dolore o gioia. Eppure basterebbe guardare gli occhi e le espressioni degli animali diversi da noi per comprendere, proprio con il nostro istinto cognitivo, che sono, al pari di noi, capaci di esprimere ogni tipo di emozionalità.

La cognizione umana è stata, almeno in questo frangente, viziata da una serie di prevenzioni ottundenti che ci hanno indotto a ritenere la nostra mente superiore ed in diritto di essere usata come strumento di dominazione sul resto del pianeta. Salvo rendersi oggettivamente conto che, davanti all’ineluttabilità e all’incomprensione della vita e dell’Universo, la piccolezza delle nostre caratteristiche diviene tremendamente evidente.

Ma questa dicotomia non ci smuove più di tanto le coscienze e, al momento facciamo prevalere l’istinto sulla cognizione e mettiamo ancora in netta contrapposizione le due caratteristiche dall’animalità anche umana, considerando il primo un elemento caratterizzante la vera essenza nostra e relegando la capacità conoscitiva ad un metodo elaborativo del tutto successivo e non contestuale.

Così anche l’empatia diviene un accessorio a regolazione variabile e non la premessa, ed insieme anche la conseguenza, del nostro entrare in contatto con la realtà. Noi poniamo delle premesse sbagliate ed arriviamo a conclusioni errate per forza di cose. Se riconsiderassimo la cognizione come primo passo per una condivisione delle esperienze, e non come strumento per eccellerre nella gara tutta umana alla sopravvivenza migliore a discapito di altri, allora apriremmo le porte ad un diverso modo di concepire l’esistenza stessa.

Mente e cognizione non sono per forza coincidenti. Noi abbiamo in mente molti concetti, ma quanto siamo in grado di esprimerli mediante un processo cognitivo, un confronto con la realtà con quell’istinto che trasformiamo in reattività inconsapevole, in irragionevolezza e mancata ponderazione?

Operare una distinzione tra mentalità e cognitività è un ulteriore passo per avvicinarsi ad una sempre più particolareggiata capacità distintiva tanto dei concetti quanto della loro applicazione pratica nella quotidianità. Tutto ciò richiede degli sforzi che possono sottrarre tempo alle distrazioni, ai cosiddetti “piaceri della vita“. Molti dei quali, purtroppo, sono possibili proprio perché la vastità della sofferenza altrui rimane una costante dell’antropocentrismo.

La valorizzazione più bella della nostra intelligenza, invece, sarebbe sganciare il tutto dalla nostra centralità nel mondo e iniziare a pensarci, per poi essere, soltanto una piccola parte di esso, dell’animalità, dell’essere conviventi e non dominanti. Forse, a quel punto, anche utili al processo di evoluzione della materia e del resto dell’Universo.

MARCO SFERINI

1° settembre 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

categorie
Il portico delle idee

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