L’intervista che Clint Eastwood ha rilasciato alla rivista americana Esquire è un insieme di luoghi comuni e di banalità legate ai genitali come metafora continua di una società “priva di spina dorsale”.
Tutti toni muscolari, legati alla fisicità mascolina, alla forza, alla crudezza di un linguaggio quasi bellico nella sua espressione meno guerresca e militare del termine ma, sicuramente, vicina ad una irruenza da interventista quasi dannunziano, da singolo vate di una crociata di risveglio di coscienze americane assopite ed addormentate.
Ma da cosa? Clint Eastwood non lo dice, non lo cita mai, ma il capitalismo è il responsabile di queste anestetizzazioni di massa, di una politica lontana dai cittadini non solo in Europa ma anche nella fulgida repubblica stellata, patria di libertà e democrazia nata sullo sterminio degli indiani e la colonizzazione spietata di territori che oggi candidati come Donald Trump vogliono difendere dalle “invasioni” straniere.
Lo scenario descritto dall’attore è disarmante: la sua è una America ventre a terra, piegata e sfruttata, dove la corruzione dilaga, dove la moralità pubblica è assente, il senso civico inesistente e i valori unici che vengono a galla finiscono per essere un’autogestione tutta privata delle vite, un’ “arte di arrangiarsi” tutt’altro che partenopea, volta al privilegio personale, all’esaltazione ancora più esasperata ed esasperante del “self made man”.
Non ama Trump ma non vede altra scelta che stare con lui: lo giudica anche razzista, ma dall’altra parte vede soltanto quell’odiato “politically correct” che, a detta sua, è una delle rovine della società e della gestione pubblica e che ha formato più di una generazione di giovani “senza palle”. Il genitalismo politico diventa una chiave di lettura quasi psicanalitica qui.
Dunque, Donald Trump recupererebbe quelle “palle” con le sue esternazioni autarchiche, con l’esaltazione dell’americanismo sopra ogni altra cosa, addirittura criticando la propensione atlantista di Obama e della Clinton. Nemmeno più la Nato garantisce la forza unica degli Stati Uniti d’America. I rapporti tra Trump e Putin, sia pure a distanza, non sono più un segreto per nessuno. Almeno non sono più segrete le simpatie che un populista demagogo ha per un altro autocrate di stampo più burocratico e forse meno demagogico, ma molto affine all’idea di potenza che dall’altra parte dell’Atlantico si respira quando parla il miliardario in corsa per la Casa Bianca.
Del resto, Eastwood e Trump non fanno analisi sociali e politiche su cui fondano delle proposte concrete. Se per il primo è in parte giustificabile visto il suo ruolo di attore e non di politico, per il secondo si tratta di un tratto distintivo che evidenzia il carattere fortemente ambiguo di una possibile presidenza certamente spostata a destra, sicuramente incline ad inasprire i rapporti tra le classi sociali e anche i piani di convivenza tra le etnie presenti nei cinquanta stati.
Ciò nonostante continuerò a guardare i vecchi film con Eastwood, compreso quel bellissimo “Gran Torino” che trattava proprio di quel razzismo che oggi lui riconosce in Trump e che gli perdona in nome della lotta indefessamente strenue contro una sorta di fantasioso perbenismo della politica, delle classi medio alte.
Come se Trump fosse, invece, il rappresentante del moderno proletariato a stelle e strisce…
MARCO SFERINI
5 agosto 2016
foto tratta da Pixabay