Il «lollismo», come lo chiamavamo noi ragazzi degli anni ’70, non era solo una infatuazione musicale ma una vera e propria condizione dello spirito. Le tenerezze liriche e rivoluzionarie di una generazione che voleva la luna e ha rischiato, pagando dolorosamente sulla propria pelle, le successive cadute dei suoi angeli ribelli.
Quindi le canzoni di Claudio Lolli sono state la colonna sonora dell’essere al mondo di Quelli come noi – da Aspettando Godot del 1972 fino all’ultimo Il grande freddo, uscito nel 2018, pochi mesi prima della morte – tanto per citare una delle sue più belle, il manifesto musicale di chi aveva immaginato, anzi viveva al presente, un mondo nuovo di rapporti liberato dall’ipocrisia, dalle nevrosi e dai miti consumistici e sadomasochistici del potere. Del cantautore schivo, il dolce e mite chansonnier così poco italiano, una delle voci più originali e poetiche della canzone italiana, assolutamente indipendente e per scelta sempre lontano dai circuiti commerciali, ora Marco Rovelli costruisce una memoria romanzesca in Siamo noi a far ricca la terra (minimum fax, pp 300, euro 17) un libro costruito a matrioska, che inanella una storia nell’altra, e corre di voce in voce, quante quelle dei tanti che costruiscono la parabola biografica del cantautore bolognese.
È un omaggio allo stesso tempo sentimentale, partecipato, ma soprattutto filologico, segnato dal percorso artistico, che aggrega materiali diversi, ricostruiti dentro una narrazione plurale omologata alla stessa lingua espressiva di un romanzo, per l’appunto, dove l’autore fa parlare gli amici d’infanzia, i compagni di viaggio, ma anche gli oggetti, come il lambrusco, la chitarra dei primi lp, il diario intimo, i dischi, le canzoni, oppure le fotografie dentro una trama caleidoscopica che sfugge alla catalogazione, costruendo in modo originale quella che alla fine è una vera e propria biografia.
La strategia è quella dell’accumulo nell’arco temporale, la moltiplicazione dei punti di vista, per fare un ritratto politico e artistico, dagli anni della formazione fino a quelli della maturità di Ho visto anche degli zingari felici (1976), Disoccupate le strade dai sogni (1977), Extranei (1980). Nei molti parlamenti si ricostruisce anche una stagione, quella dei nostri anni giovani, «la gioia di fare della gioventù un portento», come ha scritto il poeta Gianni D’Elia – quella dell’assalto al cielo e dei movimenti, del nuovo cinema tedesco e dei libri di Peter Handke – nelle storie di alcuni protagonisti, tra i quali Stefano Benni, il regista Gianfranco Cabiddu, Franco Berardi Bifo, una delle anime ribelli del movimento del ’77 bolognese, mentre lo scrittore Claudio Piersanti che lo accompagnava per concerti lo ricorda così: «i soldi non lo interessano affatto. Gli servono soltanto per comprarsi le sigarette e qualche bottiglia di vino. Al ristorante non mangia quasi niente. In casa sua dormono diverse persone, che mangiano e bevono a sue spese», secondo lui è «un vero anarchico». Lo scorge l’ultima volta alla stazione di Bologna, «un incrocio di vite», sta con la sua chitarra e lo zainetto a tracolla, «aspettando un treno».
Paolo Capodaqua lo conosce giovanissimo a Fermo, nelle Marche, sono «due timidezze che s’incontrano» dice il cantautore abruzzese, poi si trovano nello stesso posto nel ’92, Lolli non fa più concerti da anni, da quel momento non si lasceranno più, comincia quello che chiama «un neverending tour» e una collaborazione artistica che durerà quasi trent’anni.
C’è un filo che lega come un sound sotterraneo, a volte sottotraccia, la narrazione del libro alle parole e alle strofe delle canzoni, come se queste citazioni improvvise riaccendessero nelle memorie del lettore le emozioni musicali, le struggenti e indimenticabili Michel, La mosca, Anna di Francia, I musicisti di Ciampi.
Chi il suo Claudio Lolli, quello intimo, vuole tenerlo per sé è sua moglie Marina, compagna di tutta la vita, «Tutte le lingue del mondo l’ha scritta per me, ma non vi racconto un granché, perché io mi tengo stretto il mio Claudio, e Claudio Lolli lo faccio raccontare agli altri» racconta. «Vi posso sembrare silenziosa, ma è solo silenzio d’amore», dice del suo poeta, di quelli che «accarezzano troppo le gobbe,/ amano l’odore delle armi/e odiano la fine della giornata», quelli che «aprono sempre la loro finestra, anche se noi diciamo che è una finestra sbagliata».
ANGELO FERRACUTI
foto: dal sito ANPI di Bologna