Citto Maselli: “Lavorare per la formazione di un nuovo senso comune”

Emozione grande incontrare Citto Maselli, uno dei grandi maestri e registi del cinema italiano. Citto è anche un compagno di quelli rari per autenticità e coerenza. Nelle sue parole,...
Francesco "Citto" Maselli

Emozione grande incontrare Citto Maselli, uno dei grandi maestri e registi del cinema italiano. Citto è anche un compagno di quelli rari per autenticità e coerenza. Nelle sue parole, nel suo pensiero e nel suo essere ancora presenza attiva vi è la storia del cinema degli ultimi 60 anni e di un grande partito, il Pci, di cui Antonio Gramsci fu il co-fondatore. Un vero onore intervistarlo.

Citto, in un mondo così competitivo com’è quello del cinema, restarvi ‘a galla’ per una vita è una sfida dettata sicuramente dalla passione. Ma è anche una conquista che pochi attori e registi hanno ottenuto. Tu sei fra questi. A cosa hai puntato, quali ostacoli hai incontrato nel percorso e anche quali e quante soddisfazioni ti hanno accompagnato nella tua lunga vita da regista?
Il cinema non è affatto “un mondo competitivo”. Né si tratta di “restare a galla”: io – come tanti miei colleghi della mia generazione, perlomeno – ho lavorato sempre per la necessità di esprimermi incontrando gli infiniti ostacoli di chiunque non punti al successo ma a realizzare opere che abbiano un senso, suscitino un’emozione e una riflessione, e siano artisticamente riuscite. Le soddisfazioni sono appunto quelle: quando un film è riuscito e viene compreso.

E fa un particolare piacere che sia compreso dai colleghi; non so perché ma molte volte il giudizio di uno che fa il tuo stesso mestiere e compie le tue stesse ricerche è più importante di quello della critica. Ma inutile negare che, per esempio, quando leggi a tutta pagina “quando il cinema è arte” sul giornale del tuo partito e con la firma di un critico che è anche un compagno e uno studioso come Ugo Casiraghi (avvenne per Il Sospetto e il giornale era L’unità) è una vera emozione. Ma nell’uso corrente per “successo” s’intende quello del pubblico e quindi del risultato economico.

Ma troppo spesso ti trovi con un pubblico che è stato formato da film (americani soprattutto) e da programmi televisivi che stimolano le reazioni più facili e immediate e allora un film che proponga temi e problemi complessi può non essere compreso dal grande pubblico. Perlomeno nel momento in cui viene visto. La storia dell’arte – tutta – è piena di esempi di opere prima rifiutate (La terra trema di Visconti fu ampiamente fischiato a Venezia, alla sua prima apparizione, per fare un solo esempio) e poi entrate a far parte della storia della cultura.

La tua è una carriera professionale lunghissima, anche perché hai iniziato giovanissimo. Qual è stato l’input propulsivo che ti ha portato a 20 anni nel “mondo della celluloide”?
Nel “mondo della celluloide” non sono certo mai entrato. Ho iniziato a lavorare nel cinema non a venti ma a sedici anni con alcuni documentari che vennero definiti di “realismo lirico” e sono conservati nell’archivio del Luce: Ombrellai, Fioraie, Bambini e Zona Pericolosa. Sono tra le cose che amo di più tra quelle che ho fatto durante la mia lunghissima carriera. Quanto all’ “imput propulsivo” credo sia stata la visione di alcuni grandi film come La terra trema di Luchino Visconti. E poi anche la temperie culturale che in tanti vivevamo nel dopoguerra dentro il Partito comunista italiano di Gramsci e Togliatti. Da questo punto di vista io ho avuto anche la fortuna di fare la Resistenza nel 43-44 sotto la direzione di Alfredo Reichlin e Luigi Pintor: due comunisti molto colti e amanti del cinema.

A volte succedeva che al termine di una riunione che spesso si svolgeva nella casa di Aggeo Savioli (altro grande dirigente politico oltre che critico raffinatissimo e di grande intelligenza) si finiva per fare notte proprio parlando di cinema: c’erano allora i film del realismo francese che non a caso ebbero anche una notevole influenza su quel gruppo di giovanissimi cineasti che scrivevano sulla rivista Cinema.

Quali sono stati i registi che maggiormente hanno influenzato il tuo modo di fare cinema?
Sicuramente Visconti e Antonioni (di cui sono stato, oltre che grande amico, lo sceneggiatore e l’assistente alla regia). Ma anche Marcel Carné con i suoi bellissimi Porto delle nebbie e Alba tragica. Ma da Visconti devo dire che ho imparato forse soprattutto l’etica, o forse è più giusto dire la morale: nel senso che fare un film non era tanto – o solo – una necessità espressiva quanto un’azione – e dunque una responsabilità – prima di tutto sociale e politica.

Tu e Monicelli, due registi comunisti. Possiamo affermarlo. Forse gli unici, così connotati, nel cinema italiano. Questo modo di intendere la vita e la società sicuramente vi ha accomunato. Che ricordi hai del regista scomparso nel 2010, ma anche di altri registi italiani, che hanno segnato la tua vita artistica?
Mario è diventato comunista nei suoi ultimi anni di vita – iscrivendosi a Rifondazione comunista, prima volta nella sua vita di iscrizione a un partito – e io ho il ricordo soprattutto di quel periodo. Per circa quaranta anni gran parte del mondo del cinema si incontrava tutti i mercoledì al ristorante Otello, in via della Croce. Era un modo per stare insieme e per parlare di tutto: dal cinema alla politica, alle nostre vite. Mario ci lasciava tutti sbalorditi perché più che novantenne arrivava e poi tornava a casa a piedi rifiutando di farsi accompagnare.

Altri ricordi di Mario? Sì, che aveva un grande coraggio fisico. Una volta mentre giravamo un film collettivo in Palestina (ne ho organizzati una decina dopo quello su Genova nel 2001) io ricordo che lui ed io ci trovavamo in un quartiere di Gerusalemme bombardato dagli israeliani; io stavo riparato dietro un muro che aveva resistito aspettando che le bombe cessassero un istante per uscire a girare. Mario invece prese la macchina da presa dalle mani dell’operatore e andò sotto le bombe a girare. Ricordo bene che mi sentii un verme a non imitarlo, ma per lui quel rischio era per così dire normalissimo, un po’ come fare tutti quei chilometri a piedi ogni sera quando uscivamo dal ristorante.

Portare il pensiero di Gramsci e Marx nel cinema non è come portarlo in una lezione o in un dibattito. Come si traduce in una pellicola? Ovvero si può fare la ‘lotta di classe’ con il cinema?
Non so se si può fare la lotta di classe, ma certo si può contribuire alle lotte sia con il cinema che con tante altre presenze culturali. E’ quello che tanti compagni non capiscono. Quando Togliatti nel 1944 arrivò a Napoli dall’Urss e prese in mano il partito, oltre alla famosa conferenza d’organizzazione (nella quale oltre ad anticipare la svolta di Salerno chiarì ripetutamente che il lavoro del Partito doveva concentrarsi sulla classe operaria, sui contadini e sugli intellettuali), volle vicino Felice Platone per fondare Rinascita. Non ce lo scordiamo.

Il film “Gli sbandati” (anni 50), che parla di una società borghese del 43, i personaggi non appartengono al mondo degli sfruttati, degli invisibili e degli emarginati, come nei classici film neorealisti. C’è un motivo specifico per questo cambio di rotta dal neorealismo, di cui sei stato uno degli interpreti più significativi?
Sinceramente non mi sono mai adeguato, artisticamente, alle tendenze vincenti momento per momento. Il neorealismo era una grande e forte “rivoluzione culturale” in un cinema come quello italiano che veniva da una storia di commediole gradevoli quali furono quelle su cui principalmente il Fascismo aveva puntato: quello che la rivista Cinema ebbe il coraggio di definire sarcasticamente “il cinema dei telefoni bianchi”, riferendosi al fatto che per rappresentare una società benestante, in ogni ambiente che si costruiva a Cinecittà c’erano degli improbabili e ultramoderni mobili bar e gli apparecchi telefonici bianchi prodotti dalla tedesca Siemens.

Luigi Freddi, il gerarca fascista preposto alla nascita e allo sviluppo di una cinematografia nazionale, aveva capito che non erano utili i film di propaganda del regime, ma rappresentazioni di un benessere generalizzato che distraessero anche il pubblico dalle difficoltà materiali ed economiche che viveva. Il cinema italiano, così, favoriva un generale e prezioso consenso all’esistente. Su queste linee direttrici si erano andati formando giovani e ossequienti produttori, attori, scenografi e costumisti. Freddi aveva fatto costruire Cinecittà con teatri di posa e mezzi tecnici all’altezza di Hollywood e della vicina e concorrente Francia. Solo che in Francia c’erano i fronti popolari e un partito comunista cui aderivano grandi registi come Jean Renoir.

E dunque dagli stabilimenti della Victorine nascevano grandi film con grandi attori di carattere popolare come il grande Jean Gabin che impersonò uno straordinario e nuovo eroe proletario. In Italia invece con un Fascismo molto attento a tutto ciò che era comunicazione, Cinecittà, l’Istituto Luce e il Centro Sperimentale per la Cinematografia erano altrettante fabbriche di consenso. Ma malgrado tutto ciò la rivista Cinema attrasse alcuni giovani intellettuali che denunciavano questa nostra industria che invece di personaggi veri raccontava… cadaveri (come li definì Luchino Visconti appena tornato dalla Francia dove era stato accanto proprio al grande Renoir). Questa rivista influenzò tutta una serie di giovani e meno giovani registi che iniziarono delle timide sortite controcorrente con Fari nella nebbia sulla vita dei camionisti e Sissignora sulle cameriere. Crebbero anche scrittori e sceneggiatori originali come Cesare Zavattini e personaggi anomali come Vittorio De Sica, che da attore brillante e cantante alla moda cominciò a interessarsi ai problemi e alle realtà sociali.

Tutto questo per dire che il Neorealismo era il frutto di un lungo e tenace travaglio (cui parteciparono, vicini al gruppo di cinema, anche due futuri dirigenti del Partito comunista italiano: Pietro Ingrao e Mario Alicata). Dunque è ovvio che da un punto di vista politico io, per quel poco o tanto che potevo, sposassi e sostenessi il neorealismo. Quando Andreotti e il suo seguace Gianluigi Rondi cominciarono ad attaccare questo nuovo cinema italiano ricordo che fui tra i promotori (con l’aiuto di un personaggio speciale quale fu Antonio Marchi) di un convegno che si tenne a Parma e si chiamò proprio “Per il Neorealismo”.

Ma altra cosa erano le mie personali tendenze artistiche. Venendo da una famiglia borghese e certamente influenzato dai libri di Moravia e di Sartre, mi veniva naturale concentrarmi sulla denuncia di un ambiente e di una classe sociale: sono tre i miei film che hanno questo impianto: Gli Sbandati, I Delfini, Gli Indifferenti. Io sono e resto convinto che la denuncia dei mali della società in cui viviamo aiuta la formazione di quella che i sociologi chiamano, appunto, “consapevolezza critica”. E sono del pari convinto che sia questo spirito critico ad aiutare se non alimentare quel senso comune critico e combattivo che è parte (per tornare alla tua domanda) non secondaria della lotta di classe.

Quali sono invece i tuoi film in cui si respira il comunismo e hai dato il maggior contributo alla lotta di classe. Forse “I delfini” o “Gli indifferenti”? O quali altri?
Ho già risposto a questa domanda. Forse posso aggiungere che in Storia d’amore e in Cronache del Terzo Millennio, dove i protagonisti sono proletari e sottoproletari c’è qualcosa di quello che tu chiami “respirare il comunismo”. Poi c’è Il Sospetto, ovviamente, e Lettera aperta un giornale della sera. Ma non lo so e non sta a me giudicare.

(NdR: seguono 4 domande alle quali Citto Maselli dà una sola lunga risposta perché “…pongono nella sostanza lo stesso problema”)

Negli anni 70 nel tuo film “Il sospetto” con uno straordinario Gian Maria Volonté, emerge chiaramente il pensiero comunista, ma anche gli errori dei dirigenti antifascisti che rischiano così di dividere la sinistra. Mi sembra molto attuale. Oggi la sinistra alternativa non è più coesa e non si può organizzare un’efficace opposizione alle forze neoliberiste, se non eversive e reazionarie al potere. Ma il problema è anche la parcellizzazione delle forze della sinistra radicale. Quali sono, a tuo parere, le cause che hanno portato a questa disfatta e alla quasi scomparsa del comunismo nella visione comune?

Tu sei iscritto a Rifondazione comunista, un partito che ce la sta mettendo tutta per riallacciare i legami con i frammenti sparsi delle soggettività anticapitaliste e antifasciste. Molte le sconfitte nell’ultimo decennio. Ultima quella subita con Potere al Popolo, nel cui manifesto iniziale il partito credeva e vi si è speso molto. Dove si sbaglia e di chi le responsabilità di queste continue sconfitte, riguardo l’unità e la coesione dei comunisti? C’è anche una corresponsabilità dei dirigenti?

E’ pur vero che è cambiata la visione comune della società e ci siamo persi le classi di riferimento. Oggi l’operaio e molti giovani votano Lega o i 5stelle. Cosa è successo ai nostri ex compagni e compagne? Cosa succede ai giovani? Quanto è responsabile in questo vuoto di coscienza di classe la scuola e l’intera società?

Globalizzazione e la rete hanno favorito la disintermediazione dagli intermediari classici, come i giornali di partito, le sezioni, in cui ci si ritrovava per discutere, leggere e parlare, organizzare le lotte. Oggi le sezioni del nostro partito sono semivuote. Pochissimi i giovani. Non possiamo arrenderci, c’è più che mai bisogno di comunismo. Ma che fare?
Do una sola risposta a tutte e quattro queste tue ultime domande perché pongono tutte nella sostanza lo stesso problema. E che però sono domande che in realtà già contengono una tua risposta ed esprimono un tuo pensiero. Che però non è il mio. Ci provo comunque, anche se è impossibile in una breve intervista fare una analisi seria della situazione della sinistra oggi in Italia – ma non solo – e di come uscire dalla crisi politica, sociale e culturale che stiamo vivendo.

Intanto, per prima cosa, ne Il Sospetto parlo della storia eroica e tragica dei partiti comunisti negli anni trenta, in pieno regime fascista in Italia e con il nazismo alle porte. E all’interno di una Terza Internazionale dominata dalla cultura staliniana. Non vedo molta attinenza con l’oggi.

Quello che invece mi pare certo, per quanto riguarda l’Italia e l’oggi, è che tutto nasce dallo scellerato scioglimento del Pci e dall’errore che, a mio avviso, fece una parte della sinistra di quel partito di restare “nel gorgo” e di non dare vita con noi a Rifondazione comunista.

La storia che segue la conosciamo tutti: le tante scissioni di Rifondazione tutte dovute al nodo del rapporto con il governo, la nascita del Partito democratico e il vero inizio della fine di una sinistra “moderata”, la nostra “uscita” dal Parlamento (con la conseguente perdita di rappresentanza e di “visibilità”), la fine dell’egemonia culturale della sinistra sostituita dalla diffusione di un senso comune generalizzato e un pensiero unico finalizzato alla creazione di una società basata sulle “opportunità” e non più sui diritti. La creazione cioè di un terreno sociale e culturale terribile nel quale – per di più in un periodo di pesantissima crisi economica – non essendoci più punti di riferimento collettivi (né politici né sindacali), si resta terribilmente soli e allora vince l’ “io”, vince il cercare di cavarmela da solo e quindi il mio nemico è chiunque tenti di invadere il mio territorio personale e sociale.

Non casco nel gioco dell’attacco al gruppo dirigente, che invece a mio parere in tutti questi anni ha cercato di ricostruire pezzo per pezzo, con le poche forze che ormai abbiamo, un tessuto collettivo e una possibilità di ricostruzione di una sinistra che sia realmente tale. Penso invece che il partito siamo tutti noi, che spesso i nostri circoli rischiano di essere respingenti, che viviamo in un congresso continuo spesso chiusi in noi stessi e che invece di impegnarsi in guerre personalistiche vada ricostruita una comunità di compagni che ridia valore reale a questa parola. Non ho ovviamente nessuna ricetta, non mi permetto. Ma penso alcune cose: non si ricostruisce una sinistra con l’esame del sangue per valutare i livelli di comunismo in ciascuno di noi (fin dal primo statuto del dopoguerra nel Pci si entrava esclusivamente per adesione al programma); penso che oggi più che mai vada rafforzata Rifondazione, perché senza Rifondazione non si va da nessuna parte e non si costruisce nessuna alternativa. Penso anche però che lo sforzo grande da fare è tornare a rappresentare una speranza e un bisogno: la speranza di poter cambiare questa orrenda società e il bisogno di comunismo. Ma per fare questo occorre avere piena coscienza che la sconfitta che abbiamo subito è sì, e ovviamente, politica e sociale, ma anche e profondamente culturale.

Dobbiamo chiederci come è potuto succedere che in Italia per la prima volta dal dopoguerra l’egemonia culturale sia nelle mani della destra e di una destra terribile. Allora compito nostro è anche lavorare per la formazione di un nuovo senso comune, di un nuovo pensiero critico e di un diverso sistema di valori. Altrimenti possiamo anche vincere qualche battaglia, ma io credo che non compiamo la nostra missione e ragion d’essere se non ci concentriamo tutti, adesso, sulla vita culturale di questo paese: il vecchio partito comunista italiano sotto un fascismo totalitario e persecutore puntò, soprattutto con Gramsci ma non solo, all’approfondimento e alla rielaborazione della storia così come alla proposta di una nuova società.

CITTO MASELLI

Intervista di ALBA VASTANO

da Lavoro e Salute

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Dibattiti

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