C’è una frase del discorso di fine anno del Presidente della Repubblica che risalta nell’elenco sempre atteso e, purtroppo, sempre abbastanza uguale di anno in anno (visto che i problemi i governi non li risolvo mai del tutto e, anzi, spesso e volentieri, li peggiorano per la povera gente). La frase è questa: «I detenuti devono poter respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti all’illegalità e al crimine». In quel verbo (“respirare“) si sintetizza una critica agli esponenti del governo che invece vogliono far soffocare non solo i detenuti ma persino i presunti rei appena arrestati. Ed in quella frase trova espressione anche una concezione del carcere stesso come luogo non di privazione totale, ma di giusto redarguimento.
Questa è ancora la società in cui le leggi del privilegio uniformano a sé quelle del diritto e di quei princìpi tanto declamati nella declinazione liberal-democratica, pervertendo il tutto al di sotto di un livello di inumanità che viene propagandata come necessaria controtendenza moderna per salvarsi dalla deriva di interi continenti verso altri: oddio l’invasione! Dell’Africa che propende verso l’Europa e vi si schianta nella concezione ultrarazzistica di altri esponenti dell’esecutivo che poco pensano, tanto parlano e molto bislaccamente esprimono artifizi ideologici degni del peggiore avansapettacolo di quart’ordine.
Sergio Mattarella, nel suo decimo discorso alla nazione, in questo fine anno di economia di guerra, terzo dell’era di governo meloniana, incornicia i diritti umani e civili in un contesto di garanzia di quelli sociali, ricordando l’origine della Repubblica: cade appunto nel 2025 appena iniziato l’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo e della restituzione all’Italia di una libertà tanto piena quanto mai era stata vissuta e conosciuta nel corso del Novecento, nemmeno sotto il giolittismo. Respirare e soffocare: la metafora calza pienamente in questi tempi di asfitticità democratica. Chi non si è sentito un po’ mancare l’aria nel momento in cui è stato annunciato il DDL 1660?
Chi non ha provato un po’ di rabbia nel venire a sapere che, col nuovo codice della strada salviniano, si può avere più guai se si fuma una canna piuttosto che se si guida alticci? La repressione colpisce dove si insinua la malapianta del pregiudizio che, a sua volta, cresce e si diffonde grazie al terreno fertile di un disagio diffuso, di una montagna di insicurezze sociali che sono il piano inclinato su cui la destra fa scivolare la serietà di argomentazioni proposte da una sinistra pure disordinatamente arruffata nell’opporsi alle malefatte del governo. Il Presidente manda messaggi a Palazzo Chigi di continuo nel suo discorso, apprezzando chi «con origini in altri Paesi ama l’Italia, ne fa propri i valori costituzionali e le leggi».
Una conditio sine qua non per stabilire, una volta per tutte, che non è sufficiente essere nati in questo Paese per poter dire di essere dei buoni patrioti, se poi tra i tuoi ministri c’è chi si è approfittato della cassa-Covid, chi ha fatto fallimento pressoché totale con le proprie aziende, chi, invece di un busto di Matteotti, si tiene a casa quello di Mussolini; oppure chi ritiene che l’umiliazione degli studenti sia un passaggio necessario per farli crescere più nerborutamente forti sul piano psico-fisico e farne dei buoni padri di famiglia, degli ottimi mariti, dei sapienti moderni, dei difensori dell’italianità a tutto tondo.
Per apprezzare larga parte del discorso di Mattarella non serve sottolinearne ogni punto condivisibile: alcuni passaggi sono – almeno per quanto ci riguarda – poco apprezzabili, soprattutto quando si tratta di politica estera, ma nell’insieme il Presidente propone all’Italia di considerare non positivamente l’aspra dialettica che separa e fraziona la popolazione in squadre avversarie, dentro ad un torneo di contraddizioni che sono vicendevolmente valevoli: perché né destra né sinistra possono accamparsi il diritto di rappresentare interamente la nazione, ma solo una parte di essa e, se si guarda alla partecipazione squisitamente elettorale, nemmeno più così relativamente maggioritaria.
Del maggioritario, per l’appunto, si è fatto un mantra indefessamente difeso ad ogni piè sospinto. Non si può ripensare in alcun modo il metodo di delega rappresentativa nella ricostituzione del principio egualitario del voto in un sistema parlamentare. Chi più, chi meno, da Fratelli d’Italia al PD, la seduzione perversa per l’alternanza fa il paio con la sua ragion d’essere primaria: avere le Camere al servizio dell’esecutivo e questo è, in tutta nettezza, un tradimento dell’essenza prima della Costituzione, perché consegna la Repubblica ad un altro da sé, ad una scissione istituzionale che, come si è potuto vedere in questi decenni, è scissione con la popolazione.
La sempre maggiore astensione dal voto è l’ultimo gradino di una mediocre scala di antivalori, di anticivismo, di immoralismo a cui il potere è stato uniformato da un dettame liberista: garantire i privilegi delle classi egemoni e far subire il prezzo delle crisi economiche alla grande massa dei giù più deboli, indebitati e indigenti strati della popolazione. Quanto Mattarella chiama alla tutela dell’esistenza di ciascuno e di tutti come espressione primaria del minimo comune denominatore per una vita condivisa, di una ripresa in carico da parte della politica di palazzo del valore intrinseco dei beni collettivi, va nella giusta direzione. Ma si ferma anzitempo in questa ragionata critica.
Il problema rimane il rapporto tra la classi che, ovviamente, non è affrontabile in un discorso di fine anno. E soprattutto da un Presidente che non è socialista o di sinistra, ma che senza dubbio è quanto di meglio oggi c’è nelle più alte istituzioni repubblicane: un attento preservatore dell’equipollenza dei poteri. Senza Mattarella al Quirinale, oggi la destra estrema di governo non avrebbe più alcun argine nell’acquisire definitivamente ogni spazio pubblico, ogni ramo istituzionale, magistratuale e persino militare: il Capo dello Stato è, e resta, tanto colui che presiede il CSM quanto il comando delle Forze armate.
Il clima complessivo della nazione è uniforme e difforme al tempo stesso rispetto ad un resto dell’Europa in cui le spinte di destra sono ormai al massimo di quello che ci si poteva attendere in questo primo quarto del nuovo secolo. Alcuni quotidiani nazionali, per mettere una ciliegina sulla torta del revisionismo storico-politico, mettono a fine anno in prima pagina il faccione elmettizzato di Benito Mussolini e lo proclamano uomo dell’anno: perché se ne parla, perché se ne riparla e se ne straparla. E perché, per la prima volta nella sua storia incostituzionale, la destra estrema è riuscita a vincere la battaglia dell’egemonia culturale saldando la sua aspirazione a governare con quella confindustriale del rinsaldare tutto attorno al dogma dell’impresa.
Queste, dunque, sono le parti del discorso del Capo dello Stato che sono apprezzabili e che elevano il tono della discussione e del ragionamento complessivo sull’oggi rispetto alla consuetudine di una anti-arte del governare che si rifugia nell’improvvisazione innanzi alle grandi problematiche di una fase in cui la guerra è strutturale, capitalisticamente intesa e compresa nella riorganizzazione dei disequilibri globali del multipolarismo emergente. Vi sono poi delle profonde lacune in quanto affermato da Mattarella: abbiamo già citato la politica estera. Sarebbe stato apprezzabile che il Presidente toccasse con più forza il tema del conflitto di Gaza, abbandonando una prudenza che va a vantaggio solo dei sostenitori dell’aggressione israeliana al popolo palestinese.
Così come sarebbe stato opportuno che evitasse – seppure lo si comprende (anche se è legittimo non accettarlo) – toni un poco troppo ottimistici sui lavori del G7. Ma rimangono in evidenza i controbilanciamenti sui molti riferimenti alla pace: «Eppure mai come adesso la pace grida la sua urgenza». Per parlare dell’eccevissima crescita delle spese militari, Mattarella non può prescindere dall'”aggressione” della Russia all’Ucraina. Che cosa si aspettano i più duri e puri comunisti dell’oggi, quelli che hanno capito come va il mondo e che pensano di esserne gli unici interpreti? Che Mattarella si metta ad inveire contro la NATO? Che segua le analisi che facciamo su chi è stato per primo l’aggressore?
Che riconosca quindi una analisi critica di stampo marxista come propria, abbandonando la sua cultura e il suo ruolo prettamente istituzionale? Chi si sorprende per queste mancanze o è un ingenuo, anche politicamente parlando, o pensa, facendo l’ingenuo, di mostrare e dimostrare di essere più schiettamente furbo, consapevole ed in buona fede. Certo che sì: il Presidente avrebbe potuto dare un taglio differente al suo discorso. Ognuno lo vorrebbe più vicino a ciò che ciascuno di noi pensa. Ma in questa difformità di pensiero sta la natura prima della dialettica vera tra le tante sfumature che creano una cultura nazionale non retoricamente patriottica, come quella meloniana e salviniana.
Ogni anno questi comunisti durissimi e purissimi tentano la dimostrazione della loro indefessa coerenza. E ogni anno non fanno altro se non mostrarsi come tribuni di un popolo che non li capisce, che non li segue, che li ritiene – come infatti sono – degli incomprensibili oratori relegati nel settarismo più minoritario che possa esistere. Dobbiamo invece, da comuniste e comunisti, cogliere quanto ci può unire e far fare strada insieme alle altre forze democratiche, per contrastare le spinte centriste, per portare ad un nuovo progressismo partiti, sindacati e associazioni che, via via, si sono col tempo spostati su posizioni troppo moderate.
In una parola: dobbiamo lavorare alla riconsiderazione del ruolo della sinistra in questo Paese e lo possiamo fare se manteniamo ferme le nostre certezze sulla necessità del cambiamento radicale, che non si può discostare da un odio di classe che non deve renderci ciechi, ma permetterci sempre di distinguere il mutamento parziale da quello che un tempo avremmo pensato come “rivoluzione“, come cambiamento quasi totale. Nel grande dramma dello stravolgimento climatico, guerra non dichiarata della Natura all’umanità che l’ha sovvertita in questi ultimi secoli, si situa un compito del progressismo più che moderno: rappresentare davvero l’unità tra sviluppo e sostenibilità.
Il che significa mettere insieme i diritti di tutti e quelli del pianeta: significa anteporre pace, nuove ricette economiche e controllo della crescita e della distribuzione delle ricchezze sulla base delle esigenze sociali a qualunque tipo di compromesso col profitto e i privilegi. Se l’anno iniziasse con un cambio di passo in questa direzione, sarebbe già tanto. Davvero tanto, tanto.
MARCO SFERINI
2 gennaio 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria