Di tutte le cose che si potevano fare il primo giorno di primavera, Francesco “Citto” Maselli ha scelto, una volta di più, la più poetica. Andarsene. Una grande perdita. Ma non ci ha lasciati soli, con noi rimangono la sua arte, i suoi film, la sua voglia di vivere e di cambiare il mondo.
Per ricordarlo ho cercato di unire tutti i suoi mondi, chiedendo a persone del mondo della cultura, del giornalismo, dello spettacolo, del cinema e a suoi compagni di partito e non, quale è il film di Maselli cui si sentono più legati.
Alla “scelta” dei film si sono aggiunti ricordi politici e personali a tratti inediti, anche perché, chi è intervenuto, non sapeva chi fossero gli altri interlocutori e cosa avessero “scelto”. Quello che è emerso mostra tutto l’affetto che avevamo e continueremo ad avere per Citto.
Dedico questo “saluto collettivo” a Stefania Brai e ringrazio di cuore tutte e tutti per i loro interventi.
MAURIZIO ACERBO. Tra le opere di Citto metterei i suoi interventi politici che erano un capolavoro di sintesi e umiltà. Li scriveva e leggeva, con stile da comunista di vecchia vendemmia, per non rubare tempo ai compagni. Consiglio a tutte e tutti di riascoltare il suo intervento di quattro minuti al congresso in cui nacque Rifondazione nel 1991. Ho proposto a Stefania Brai di raccoglierli in una pubblicazione perché credo che ci restituiranno non solo il Citto che abbiamo amato e conosciuto in tante riunioni, telefonate, incontri ma anche un pezzo importante di storia politica e culturale del nostro paese.
Difficile scegliere un film di Citto. Da figlio di papà operaio e mamma sarta tifo per i miei quasi coetanei di Storia d’amore e sono particolarmente affezionato a I delfini e Gli indifferenti, così antiborghesi e per questo così attuali. Direi punk. Se l’antitesi operaia e popolare non c’è più nel nostro paese, il cinismo e la miseria borghesi mi sembra che rimangano una costante. Anzi direi che sono anche peggiorati contagiando l’intera società e la sinistra. Sono film politici quanto Il sospetto che rimane imprescindibile per capire cosa è stato il comunismo novecentesco. Meglio di Novecento e Terra e libertà perché capace di raccontare le contraddizioni senza semplificazioni, eroismi, momenti lirici, retorica. Bastano le parole di Gian Maria Volontè che chiudono il film. La semplicità difficile da farsi che Brecht chiamava comunismo.
FAUSTO BERTINOTTI. Sebbene riconosca che dal punto di vista della critica cinematografica altri film di Citto potrebbero godere di maggior considerazione, ti direi Il sospetto. Forse anche per una meritata riparazione nei confronti di chi a sinistra storse il naso. Ancora oggi e domani può aiutare a capire uno dei mondi da cui veniamo e la grandezza dei compagni che l’hanno popolato. Siamo nani seduti sulle spalle di giganti. Giganti che anche dall’errore sanno costruire futuro. “Buscar el levante para el ponente…”.
VALENTINA CARNELUTTI. Il film di Citto che preferisco e il film al quale sono più legata non sono lo stesso film, ma immancabilmente dialogano tra loro.
Storia d’amore, del 1986 è tra i miei film preferiti in assoluto! Ma naturalmente sono legata a Le ombre rosse. È stato il mio primo film con Citto e il suo ultimo e giorno dopo giorno ho coltivato il privilegio di testimoniare del suo entusiasmo, della sua capacità contagiosa di portare avanti un’idea. E della sua lucidità capace di anticipare temi sociali e politici mantenendo un lirismo astratto e pur radicato nel presente.
Ho incontrato Citto la prima volta per un provino, cercava una persona più grande, mi fece capire che non andavo bene ma volle chiacchierare, sapere di me. Commentò il fatto che non ero truccata né particolarmente agghindata. Come mai sei venuta a fare il provino in pantaloni e camicia e senza trucco? Faceva domande dirette, così. Non sapendo da cosa vestirmi ero venuta vestita da me stessa.
Circa un anno dopo mi chiamò la mia agente, disse che se volevo fare la protagonista del film di Citto dovevo prendere o lasciare, accettare subito, senza aver letto la sceneggiatura, perché lui aveva scelto e dovevano chiudere il cast al volo. Ero in Islanda. Dissi di sì e tornai a Roma per incontrarlo. Una sera, tardi, a casa sua. Parlammo di Margherita fino a tarda notte, di utopie e d’amore. Era immerso nel film e non contava nient’altro. Anche questo fu contagioso. Per due mesi non contò altro che il vecchio cinema distrutto in cui giravamo e il sogno di Citto/Margherita che mi ha regalato l’opportunità di incarnare. In quel tempo credo che siamo diventati un po’ amici, così mi è sembrato quando con il film abbiamo gironzolato per l’Italia, Venezia, Lodi, il Molise… Allora Citto mi prendeva la mano e diceva, vedi che fortuna che abbiamo? Ecco sì, Le ombre rosse nella sua scompostezza è stato una fortuna, che ho condiviso con Roberto Herlitzka e Ennio Fantastichini, con Ettore Scola che veniva a trovarci sul set e con Luca Lionello che sembrava ogni giorno di più il suo personaggio. I panni di Margherita li rivesto spesso, quando mi trovo a difendere un’idea, a entusiasmarmi per una proposta folle, quando tutto sembra promettere sconfitta e invece mi accanisco. È il tragitto che conta. E noi nel tragitto siamo stati più vivi che mai.
LUCIANA CASTELLINA. Citto Maselli è una pietra fondamentale della mia esistenza, l’incontro con lui ha segnato la mia vita, non posso dire che altrimenti avrei vissuto in un modo diverso, ma è stato il primo passo di una vita che dal quel momento ha preso una direzione che continua ancora adesso che ho 94 anni.
Nove giorni dopo il 25 aprile del 1945 a Roma, che era stata liberata un anno prima e in cui si ero ricostruiti i primi gruppi neofascisti, venne organizzata una manifestazione per Trieste italiana. Io ero in prima fila perché ero di origine triestina; mio nonno si chiamava Liebman, amico di Guglielmo Oberdan il primo eroe irredentista che attentò alla vita dell’Imperatore Francesco Giuseppe. Non sapevo nulla, se non che Trieste dovesse essere italiana.
Marciai con la mia scuola in piazza della Repubblica, che allora si chiamava piazza Esedra, e la vidi piena di gente. Ero contenta, pensavo che la manifestazione fosse riuscita. In realtà la piazza era piena di comunisti che ci volevano picchiare di santa ragione. Fu il mio primo contatto col Partito Comunista Italiano. Un incontro fatale. Ma avevano ragione loro. La manifestazione era stata organizzata proprio dai gruppi neofascisti, guidati da un certo capitano “Penna bianca”.
Io rimasi con una bandiera monarchica sulla spalla e mentre il corteo si disperdeva, dalla sede del PCI arrivò un gruppetto di giovani. Uno di questi, che era proprio triestino, raccontò ciò che gli italiani fascisti avevano fatto agli sloveni, ovvero la prima “pulizia etnica” della storia, simile a quella fatta con la nascita di Israele e i palestinesi. Stetti a sentire, seduta su un gradino, e rimasi colpita perché a casa mia gli sloveni venivano chiamati “sciavi”, cioè schiavi.
Il giorno dopo a scuola, il liceo Tasso di Roma, andai a cercare questi comunisti. Sapevo che esistevano, ma non avevo mai avuto contatti. Incontrai così quello che sarebbe diventato mio marito, Alfredo Reichlin, e anche Luigi Pintor, appena usciti dalla clandestinità. E poi c’era un circolo culturale. Ci andai e trovai Citto Maselli.
Chiacchierando con Citto capì subito che i giovani comunisti erano così colti, tanto più colti delle “bestie” che eravamo noi, e ne rimasi molto colpita. Citto intuì che potevo essere “reclutata” e mi propose di fare una conferenza sul cubismo, oggetto all’epoca misterioso. Preparai la conferenza con molto impegno e titubanza. Fu la prima che feci.
Puoi quindi immaginare quanto Citto sia importante per la mia vita. Siamo rimasti sempre molto amici. È stato un “comunista bravo”, nel senso che è stato un intellettuale, ma anche un militante. Si è sempre occupato dell’azione collettiva, tanto è vero che è stato lui nel ’68 a promuovere la contestazione alla mostra del cinema a Venezia, è stato lui a dar vita all’associazione degli autori, l’ANAC che ancora esiste.
L’ho ritrovato in tanti momenti della mia vita. Tra l’altro ci vedevamo tutti gli anni, all’inizio di dicembre per il suo compleanno, un incontro sempre molto bello perché ci incontravamo sempre più vecchi, ma forti di un’amicizia nata quando avevo sedici anni e da una militanza, prima nel PCI poi in Rifondazione, che ha attraversato la storia dei comunisti. Storie che abbiamo raccontando in un film, Frammenti di Novecento, tornando al Tasso, la nostra scuola confrontando in qualche modo le rivendicazioni di ieri a quelle di oggi.
DANIELE CECCARINI. A me è sempre piaciuto molto, tra i tanti, Storia d’amore. Per la capacità di raccontare le vite di questi ragazzi della periferia con una delicatezza che pochi hanno. È entrato in quelle vite e le ha raccontate. Come hanno detto Citto e Valeria Golino, la protagonista del film, ha una forza politica non esplicita, anche se è un film molto politico, nel senso più alto del termine.
RICCARDO CHIARI. Un altro mondo è possibile, quella regia collettiva delle giornate di Genova, da consegnare a ogni generazione, per non dimenticare.
GIORGIO CREMASCHI. Il film che “scelgo” è Lettera aperta ad un giornale della sera. È una storia che la mia generazione ha vissuto, io personalmente, l’intenzione di andare a combattere con i vietnamiti… le discussioni, le paure anche… tutto poi risolto dai vietnamiti che fecero sapere che non volevano volontari occidentali, perché avrebbero speso più tempo e risorse a proteggerci nella giungla, che noi ad aiutare loro.
PAOLO FERRERO. Nella mia esperienza concreta più che il regista ho conosciuto il compagno Citto Maselli, militante appassionato di Rifondazione e intellettuale comunista nel significato profondo della parola. In primo luogo di Citto voglio sottolineare il suo rigore morale. Non solo è stato una vita dalla parte giusta senza mai vendersi e nemmeno regalarsi. Citto è stato un esempio per tutte e tutti noi di come si possa coniugare rigore politico, morale e creatività: un grande artista che non solo ha usato la sua arte per cambiare il mondo ma che si è sempre schierato in modo coerente nelle scelte che si è trovato a dover fare: dallo scioglimento del PCI ai giorni nostri.
Questa moralità sobria e rigorosa ha guidato anche le sue scelte quotidiane. Sono stato testimone di come per Citto la scelta di fondo del comunismo non fosse solo un orizzonte ma il principio ordinatore degli atti nella vita di tutti i giorni. Lo chiedeva a se stesso e lo considerava un criterio con cui valutare l’opportunità o meno di costruire o proseguire relazioni con altri compagni e compagne. Su questo ha fatto scelte non facili. Chepeaux.
Parimenti Citto è stato un grande intellettuale comunista, militante, prima nel PCI e poi in Rifondazione Comunista. Uomo di partito, ha pagato tutti i prezzi di immagine che questo produce all’essere intellettuale. Quanti sono gli intellettuali comunisti e di sinistra che sulla loro sbandierata estraneità ai partiti costruiscono la propria immagine? No. Citto aveva scelto consapevolmente di stare in una impresa collettiva e manifestava con tutta la libertà di cui era capace le sue idee in relazione a quel progetto comune. Parimenti Citto era convinto che il filo rosso del comunismo risiedesse nella capacità delle masse, dei soggetti sociali di autorganizzarsi e di autotrasformarsi nel conflitto. Lo si vede nei suoi film, l’ho misurato nella passione con cui a Genova si gettò a capofitto a filmare quella generazione ribelle, così diversa ma così vicina alla sua storia. Citto è stato un intellettuale comunista di partito per il quale il partito è sempre stato un importante strumento per la liberazione delle masse, mai un fine in se.
Citto è stato un intellettuale dirigente politico, un organizzatore di cultura e di iniziativa politica nel settore in cui era anche un artista. Non ha solo fatto film impegnati ma ha organizzato il conflitto dentro il mondo della cultura di cui faceva parte.
Non ho spazio per procedere oltre. Posso solo, mentre lo piango, essere riconoscente per aver potuto condividere con lui una parte di vita e di militanza, di dubbi, di decisioni, di pensieri e di speranze. Ricordo come un privilegio l’aver talvolta ricevuto da lui apprezzamenti per alcune scelte, per alcune affermazioni od idee. Ciao Citto, grazie di essere stato dei nostri, di quelli che da Spartaco in avanti fanno della lotta per la libertà la loro ragione di vita e grazie di averlo fatto con quella grazia e quella maestria che ti ha reso un grande regista.
STEFANO GALIENI. Il regista e il compagno hanno lo stesso volto, la stessa vitalità irrefrenabile che resterà sempre nella memoria. A volte, se penso a Storia d’amore, Il sospetto, Le ombre rosse, posso provare, con fatica a separare razionalmente ciò che è, per me, un’immagine unica, senza confini. Poi arriva un ricordo, uno di quelli che ti accompagneranno per tutta la vita. Un altro mondo è possibile, il documentario girato durante i giorni del G8 di Genova da un fantastico collettivo di registi e che Citto Maselli ha organizzato, curato, del cui occhio si intravede continuamente la presenza, non è soltanto la dimostrazione di come si possa realizzare una contro narrazione forte ed efficace. Lo sguardo guida e le riprese effettuate – immagino la fatica occorsa per selezionare e montare meno di sessanta minuti di “girato” – sono memoria scolpita per coloro che il mondo vogliono cambiarlo ancora e per chi di quei giorni conosce poco o ritrova soltanto cupi racconti. Dall’arrivo dei treni, agli sguardi delle ragazze e dei ragazzi, ai colori degli striscioni, ai gesti carichi di gioia e di forza vitale, flash che restituiscono un’altra storia, che fanno tornare una sana e irrefrenabile voglia di piazza. Lo considero uno straordinario gesto d’amore contro chi vorrebbe che quei giorni e quella determinazione venissero cancellate dal novero delle possibilità di stare al mondo. Fra gli infiniti “grazie” che dobbiamo continuare a rivolgere a Citto, in questo mosaico di sguardi che non hanno tempo, ci è permesso di intravvedere scampoli di futuro. E di agire.
GABRIELLA GALLOZZI. Storia d’amore. Non è stato solo il film che ha lanciato la diciassettenne Valeria Golino (coppa Volpi a Venezia 1986 oltre), come più sovente riportano le cronache. Storia d’amore è il film che, forse più degli altri, racconta la grande storia d’amore di Citto Maselli col suo cinema. Meglio la sua idea di cinema: politico, esistenziale, poetico, raffinatissimo e capace di ritratti femminili da antologia.
Cominciati del resto fin dagli esordi con Storia di Caterina (1953) e culminati qui con Bruna, giovane proletaria dalla vitalità prorompente che si sveglia ogni notte alle 3 per andare a fare le pulizie in un palazzo del centro. Occupandosi anche della casa e della famiglia, due fratelli piccoli e un padre vedovo (Luigi Diberti), militante comunista. E che non si fa “schiacciare” da tutto questo, ma anzi si batte per costruirsi una sua felicità attraverso l’amore, prima per Sergio (Blas Roca-Rey), facchino ai mercati generali e poi per il giovanissimo Mario (Livio Panieri), emigrato dal Sud e barista, in un rapporto alla Jules et Jim proletario, politico, sulla condizione femminile oltre il femminismo. Che terminerà, drammaticamente, con la consapevolezza per Bruna di un senso di esclusione “antico” da quel mondo maschile che lei stessa ha creato e “cresciuto”.
Negli anni del flagello dell’eroina e dei tanti accattoni di borgata narrati non solo dal cinema, Citto Maselli ridisegna con Storia d’amore anche quell’immaginario, raccontando la meglio gioventù di periferia, piena di coraggio, che sgobba, con la voglia di futuro, rimasta decisamente fuori campo fin lì.
Nel mio ricordo, inoltre, il valore aggiunto che lego a questo film è averlo rivisto insieme a Citto e Stefania in una visione privatissima. Ascoltando i suoi, ma è più giusto dire i loro racconti – soprattutto in questo caso – regalati per amicizia, affetto e umanità. Una storia d’amore anche questa.
SABRINA IMPACCIATORE. Non dimenticherò mai Citto. Il primo regista della mia vita, quello che per primo ha realizzato il mio grande sogno di fare l’attrice. Nel ’96 stavo lavorando a Macao, uno storico programma di Gianni Boncompagni, e mi ero inventata il personaggio di un’aspirante attrice con uno spiccato accento sardo di nome “Darla”. Il mio tormentone era ispirato surrealmente a Citto: “Citto volevo solo dirle che io non scenderei mai a compromessi, per me il compromesso non esiste! É solo che io sinceramente, profondamente, vorrei fare l’amore con lei” dicevo guardando nella telecamera come se Maselli mi stesse guardando dal salotto di casa sua. Una sera Boncompagni mi fece uno scherzo tremendo, e mentre andavo in onda, in diretta, ripetendo verso la telecamera il mio tormentone, fece entrare all’improvviso Citto Maselli in studio. Volevo sprofondare! Pensavo che mi avrebbe detestata per sempre! Ma Citto era felice come un bambino, e alla fine della trasmissione mi aspettò nel corridoio e sorridendo mi disse: “Ti prometto che ti darò un ruolo nel mio prossimo film”.
Io pensavo volesse solo essere gentile, e non lo presi sul serio. Me ne dimenticai.
Un anno dopo mi chiamò la mia agente e mi disse che Maselli mi voleva nel suo film. Non potevo crederci! Il primo film della mia vita!!! Che grande uomo Citto! Un uomo di parola, un puro di cuore. Un idealista, un sognatore! Debuttai così ne Il Compagno, tratto da un romanzo di Cesare Pavese, dove Citto mi affidò il ruolo di una ballerina d’avanspettacolo che sotto mentite spoglie dedicava la sua vita alla lotta antifascista. Giravamo nei teatri di Cinecittà e lui mi dava tanta fiducia e mi ripeteva che avevo un grande talento e mi incoraggiava sempre, io ero tanto insicura e timorosa ed ero piena di complessi, lui mi diceva che gli ricordavo la Vitti! Alla fine del film ci fu una grande cena con tutti gli attori e tutta la troupe, Citto salì in piedi sulla sua sedia e fece un discorso bellissimo che commosse tutti (io piangevo a fontana). E poi iniziò a battere le mani, con quel suo sorriso aperto e gioioso, e ad intonare: “Una mattina, mi son svegliato, o Bella ciao Bella ciao Bella ciao ciao ciao…” e allora l’abbiamo cantata tutti insieme a squarciagola. É uno dei ricordi più dolci della mia vita. E Citto resterà nei miei pensieri e nel mio cuore per sempre.
FLAVIO INSINNA. Più che un ricordo cinematografico ho un ricordo personale. Era il 1988 e con la scuola di recitazione di Gigi Proietti andammo in visita “nel” set di Codice privato di Maselli, film con Ornella Muti come unica protagonista. Dico “nel” set e non “sul” set perché non eravamo dietro i monitor, ma proprio in mezzo al set, anche grazie ad pausa nelle riprese, respirando cinema. Maselli ci accolse con gentilezza, umiltà e semplicità non facendoci mai pesare di essere al fianco di un autentico Maestro. La grande semplicità dei grandi, ritrovata due anni dopo in Nino Manfredi, un altro gigante, intervistato per uno degli esami finali della scuola. Non posso dire che ero amico di Maselli, ma quella visita “nel” set fa parte di quello che ho fatto dopo. Grazie per avermelo fatto ricordare.
WILMA LABATE. Ero molto legata a Citto e ho amato quasi tutti i suoi film. Quello che più mi ha colpito é Il sospetto per il drammatico rapporto con un partito immenso ma duro e a tratti sordo alle esigenze dei militanti.
FABIOMASSIMO LOZZI. Difficile scegliere un singolo film di Citto che abbia avuto una particolare influenza su di me, perché tutto il suo cinema è una cornucopia di bellezza, idee, spunti, riflessioni e ispirazioni che hanno illuminato il mio percorso artistico – dalla lucida capacità di osservazione, analisi e critica della realtà oltre le apparenze alle ardite sperimentazioni estetiche e stilistiche e all’attenzione e precisione con cui utilizza ogni singolo elemento del linguaggio cinematografico; dalla sensibilità con cui riesce a ottenere il meglio dai suoi cast alle indimenticabili scene madri con cui punteggia o conclude i suoi capolavori – e tanto altro ancora che rende il suo percorso artistico unico, non ultime la coerenza e integrità della sua militanza comunista, svolte con abnegazione e sacrificio e sempre presenti nei suoi film.
La mia quindi non può che essere una scelta del tutto affettiva e personale, quasi egoistica direi, perché sicuramente parla più di me che di Citto, in quanto mi riporta a un momento particolare della mia vita. Ho visto infatti Civico zero proprio mentre stavo ultimando la lavorazione del mio primo lungometraggio, Altromondo, tra mille dubbi e incertezze: era un progetto molto insolito e ardito e non ero sicuro di aver fatto le scelte giuste in quella mia scelta di mescolare documentario e finzione con l’intenzione di esplorare nuove vie e forme del linguaggio cinematografico.
Volutamente non avevo letto nulla su Civico zero, era il nuovo film di Maselli e tanto mi bastava. Dopo i primi minuti rimasi folgorato: Citto aveva avuto la straordinaria intuizione di far interpretare inizialmente ognuna delle tre storie vere di emarginazione che compongono il film dai personaggi reali che le avevano vissute (ricollegandosi quindi idealmente al suo bellissimo episodio Storia di Caterina per il film L’amore in città, che era interpretato dalla vera Caterina) per poi sostituirli nel corso del racconto con attori professionisti come Letizia Sedrick, Massimo Ranieri e Ornella Muti, quasi irriconoscibili per come sono completamente immersi nei loro ruoli – caricando così quelle storie di un portato ancora più universale e simbolico di quello, molto doloroso, che già portavano in sé e regalandoci il ritratto di un’umanità dolente, oltraggiata e emarginata. Questa scelta artistica così coraggiosa rende Civico zero non solo un appassionato e dolente grido di dolore in difesa degli elementi più fragili e emarginati da una società spietatamente capitalistica, ma anche, al tempo stesso, una meditazione sul rapporto tra realtà e finzione, sulla natura del documentario cinematografico, sul suo linguaggio e sul superamento della separazione tra cinema della realtà è cinema di finzione, quindi sulla natura del mezzo cinematografico stesso. In un caso esemplare di sincronicità, Citto con Civico zero non solo regalava al mondo un’opera giovane e coraggiosa, altamente innovativa e di una prorompente vitalità, ma al tempo stesso dissolveva tutti quei dubbi che mi affliggevano, rassicurandomi e illuminando il percorso che avevo intrapreso, da grande maestro che è stato e sarà sempre. Per un eccesso di modestia non gli ho mai parlato di questo episodio, mi pareva davvero presuntuoso mettere in relazione il nuovo capolavoro di un padre del cinema italiano con il mio modesto esordio, ma gliene sarò eternamente grato.
DANILO MARAMOTTI. Non è uno solo il film di Maselli che mi è caro e che ammiro ma li avrei visti tutti più tardi, mentre ho un ricordo particolare de I delfini. Negli anni sessanta noi ragazzini di allora non ancora ipnotizzati dalla televisione si andava al cinema quasi tutti i pomeriggi, ma il nostro genere di film erano Il prigioniero di Zenda o Il covo dei contrabbandieri… I delfini fu il primo film di seria denuncia sociale, non mascherata dal grottesco della commedia all’italiana, che ci capitò di vedere. Una sorta di Signore e Signori drammatico che descriveva la borghesia provinciale nei suoi difetti morali e nelle sue ipocrisie congenite. Malgrado il sottile filo di retorica sotteso, era una storia capace di far scaturire la scintilla di una coscienza sociale che a dodici anni potevamo intuire ma che per la prima volta ci capitava di vedere rappresentata.
RAUL MORDENTI. Fra i lavori stupendi di Citto scelgo e segnalo un film considerato ingiustamente minore, che forse non tanti/e hanno potuto vedere: Civico zero (o Civico 0) del 2007. Dei tre episodi il secondo è dedicato a una immigrata (dalla Romania, mi sembra) interpretata da Ornella Muti, che grazie alla regia di Citto è per una volta tanto brava quanto bella. Lo sguardo, inconfondibile e unico, di Maselli consiste nel fatto che la sua immigrata non soffre solo la disoccupazione, la mancata conoscenza della lingua, la miseria materiale, ma soffre la solitudine e la depressione psicologica, essendo costretta a vivere in una casa da sola, per badare a una vecchia silenziosa. Maselli dimostra come sia una solenne sciocchezza l’idea (ahimè, condivisa da tanti, anche a sinistra) che i problemi della psiche, che Freud e Jung, comincino solo da un certo livello di reddito in su. No, l’immigrata di Maselli è una donna, è un essere umano, e la sensibilità comunista di Citto racconta e mostra come anche la psiche faccia parte delle sofferenze del popolo degli sfruttati. Direi che in questo c’è tutto Citto Maselli, e la concezione dell’arte che fu sua, e solo sua.
ROBERTO MUSACCHIO. Scelgo per ricordare Citto Maselli Storia d’amore, un suo film del 1986 con Valeria Golino. Una storia che dice già allora moltissimo di quella condizione giovanile, femminile e sociale su cui tanto ci interroghiamo. Il desiderio di vita di una giovane donna è forte e non scontato. Citto racconta tante cose che troviamo in film europei su giovani proletari e relazioni aperte che non sono prerogativa dei “borghesi”. La “sconfitta” per “esaurimento” è pari al desiderio che non ne viene cancellato. La Roma che sceglie, e rende benissimo, è anche vicino a dove vivo ed è parte della storia della periferia di questa città. Grazie Citto.
FRIDA NACINOVICH. Il film di Citto che ho amato è I delfini, spietato affresco della provincia presessantottina, denuncia sociale, generazionale, morale di una ricca borghesia cinica e annoiata, che quasi si perde nelle pieghe di un boom economico che finisce per regolare anche i rapporti fra le persone. I “delfini”, i giovani sono l’immagine più calzante di un re nudo. L’unica ricchezza è il sogno, la capacità di immaginare un’altra esistenza possibile. Perché come direbbe Fellini, l’unico realista è il visionario.
MAURIZIO NICHETTI. Il film di Maselli che mi piace ricordare è Lettera aperta a un giornale della sera. Per vari motivi. Era il 1970, l’anno prima avevo lavorato con Massimo Sarchielli in teatro, in W Amleto di Sergio Graziani, al Sistina di Roma con Giancarlo Giannini. Ritrovare Massimo in un film è stata la prima molla che mi ha portato al cinema a vedere quel film. Un film molto parlato, molto intellettuale, molto dentro le contraddizioni di una categoria di intellettuali impegnati messi di fronte alle loro contraddizioni. Un film di cui si parlava molto tra amici, aspiranti attori, aspiranti intellettuali, aspiranti e basta. E parlandone in lunghe discussioni notturne ci sentivamo tutti come protagonisti di quella storia, di quelle contraddizioni, di quel parlare, in fondo, troppo.
MONI OVADIA. Ho conosciuto personalmente Citto Maselli, avevamo anche un legame come militanti politici, sociali, rafforzato negli ultimi tempi, e naturalmente ci sono dei suoi film che sono stati importanti per la mia cultura di spettatore cinematografico e per capire come il cinema possa raccontare eventi fondamentali della società.
Uno è stato Il sospetto con uno straordinario Gian Maria Volonté che descrive come in una lotta di resistenza contro la dittatura si possa insinuare il “sospetto”, in un fronte combattente, che qualcuno possa essere un informatore, una talpa. Poteva capitare ed è stato raccontato in maniera molto forte con un finale che illumina la tempra del militante antifascista che di fronte alla proposta di farsi corrompere e di diventare un informatore rifiuta. Un film con un linguaggio di un regista che ha sempre fatto del tema politico un tema centrale nella sua riflessione. Perché Citto, oltre che un regista, è stato un militante nel senso più nobile del termine.
L’altro film che è stato per me molto forte è Gli indifferenti dal romanzo di Moravia che mostra come si disfa, si sfarina fino alla svendita del sé una borghesia abituata a privilegi che rischia di perdere. In quella situazione tutta la dignità borghese se ne va al diavolo e cede alla vera ragione che ha animato, prevalentemente, la borghesia che è quella del denaro, di ciò che compra i privilegi e lo status. Nel film c’è un grande Rod Steiger, che è un grande in generale, e due incantevoli giovani Claudia Cardinale e Tomas Milian.
Un esempio di come il linguaggio cinematografico possa mostrare in modo molto ficcante alcuni aspetti di un ceto sociale, raccontando anche ciò che un ceto sociale, fondato sul potere del denaro, può subire nel momento in cui perde lo stato di indipendenza finanziaria e cede a compromessi, all’epoca considerati osceni e indegni. È un discorso sulla borghesia, sul potere del denaro che mi sembra essere stato molto, molto felice sia nella regia, sia nella scelta di mettere in pellicola il grande romanzo di Moravia. Ne conservo una memoria molto vivida e disturbante.
Nella vasta filmografia di Citto questi sono i due film che mi sono rimasti più iscritti nella memoria. E poi ricordo l’appassionatissimo militante che non ha mai ceduto. È stato da questo punto di vista esemplare.
NICO PIRO. Lettera aperta a un giornale della sera. Perché da un interno privato riesce a raccontare l’esterno pubblico. Perché evidenzia i limiti di un’intellettualità necessaria ma che si isola dal mondo reale e da quelle classi con cui vorrebbe parlare e che dovrebbe guidare/rappresentare. Perché la guerra – anche solo per gioco – è la fucina di tutta le contraddizioni e delle fragilità umane.
MATTEO PUCCIARELLI. Ho sempre apprezzato molto, per il disincanto di fondo che è il filo conduttore del film, Lettera aperta a un giornale della sera. Ci si trova dentro lo stacco che oggi ognuno di noi, nel suo piccolo, vive tra la tensione ideale e le utopie dell’essere e del dirsi di sinistra e le proprie contraddizioni, mancanze, debolezze.
Cambiare il mondo è sempre stata l’ambizione della gran parte dei e delle militanti di sinistra e il film è ambientato in anni in cui davvero un pezzo di quella generazione mise a disposizione la propria vita, o un pezzo della propria vita, per dare concretezza alle proprie idee. Eppure Maselli guardava già un po’ più avanti, a quel che sarebbe diventata per molti e molte l’appartenenza politica: un vezzo, un’abitudine, un fatto sentimentale o ereditario, in alcuni casi una moda (passeggera). La commedia in questione è per certi versi drammatica perché indicava un futuro che per noi è presente: anche la più radicale delle proposte politiche a sinistra è impossibilitata a compiere una reale trasformazione. Ed è una “colpa” non solo collettiva ma pure individuale.
ANDREA PURGATORI. Citto l’ho conosciuto prima come autore e come regista e poi personalmente. Come autore il film che più mi ha toccato e impressionato è I delfini, che ho visto quando ero piccolo. Un film molto contemporaneo, molto attuale che racconta, contestualizzando, una società molto classista. Un pezzo di questo Paese, della futura classe dirigente e l’indifferenza con cui vive la propria situazione. Tutto sommato, se lo vogliamo rapportare a oggi, in qualche modo quella storia è la storia delle generazioni attuali che sono molto “sbandate” e anche incapaci di riflettere su loro stesse.
Dal punto di vista cinematografico Citto ha fatto altri film belli e importanti, ma questo è quello che mi ha colpito di più.
Poi Citto l’ho frequentato e conosciuto in difesa del diritto d’autore, degli autori. Per le battaglie fatte anche politicamente per difendere il nostro cinema. E dal quel punto di vista lui è sempre stato uno propulsivo, pieno di idee e intransigente che è una delle qualità che gli vanno riconosciute, cioè quella di essere stato poco negoziale e poco compromissorio. Caratteristiche che facevano parte di una generazione, alla quale lui apparteneva, che era molto tosta. Mi fa venire in mente Ugo Pirro, mi fa venire in mente Gian Maria Volonté, mi fa venire in mente quel tipo di attori e autori che hanno sempre inteso il nostro cinema come una forma d’arte, di cultura, ma anche un modo politico di esprimere e di raccontare la nostra società e il nostro Paese.
Da questo punto di vista Citto è sempre stato un passo avanti. Lo è stato fino all’ultimo. Lo ricordo lo scorso anno a Venezia ed era sempre una persona molto illuminata e molto tosta. Il fatto di non essere più al cento per cento fisicamente non gli impediva di essere una persona molto lucida dal punto di vista delle analisi che faceva, a volte sgradevoli, a volte magari non condivisibili, ma sicuramente con una coerenza che tantissimi altri non hanno mai avuto.
ROSA RINALDI. Difficile parlare di Citto Maselli al passato. Difficile scegliere un suo film: sono tutti di una modernità e contemporaneità impressionante. Alcuni film che Maselli ha messo in scena attraversano soggetti politco-sociali che ormai non ci sono più, come il PCI, cogliendone contraddizioni e consuetudini ma con lo sguardo rivolto al futuro. I suoi film sono densi e pieni di quella politica tanto ricercata, osservata e raccontata come metafora delle contraddizioni sociali. Citto è Il sospetto, è Lettera aperta ad un giornale della sera, è una Storia d’amore ed anche uno straordinario cortometraggio come Ombrellai. Citto Maselli per me è la sua opera cinematografica è Venezia con l’invito alla Biennale sul tappeto rosso percorso insieme per la presentazione del suo film Cronache del terzo millennio. Un privilegio, un’esperienza di cui non l’ho mai ringraziato abbastanza. Non è solo per questo episodio personale che lo indico come mio film preferito ma soprattutto perché Citto Maselli è stato tra i pochissimi registi – non me ne sovvengono altri – che si sia davvero interrogato attorno al passaggio del millennio. La metafora del palazzone occupato, i tentativi di auto organizzazione dei soggetti che l’abitano, la mescolanza di etnie, abitudini ed esperienze, le ulteriori e diverse contraddizioni sociali che quotidianamente vi si sviluppano, fino a mettere in scena il ripetersi dello sfruttamento dell’uomo su l’uomo. Per me, Citto, è stato un maestro ma anche il compagno di canti notturni a squarciagola in piazza Farnese, Citto, è il compagno comunista, è il Partito, è il cinema, è Venezia, Citto è il racconto della sua storia di ragazzo partigiano e di Maestro del cinema, Perché Citto è!
GIOVANNI RUSSO SPENA. Ognuno dei capolavori di Citto segna un’epoca della società, una fase della lotta per la democrazia costituzionale, un segmento del suo punto di vista. Per questo amo molto Le ombre rosse, la metafora di Citto comunista “rifondatore”. Nell’opera vive, infatti, il comunismo garantista e libertario, che declina marxismo e comunismo al plurale. È un Citto che rompe, ancora una volta, con vigore politico ed artistico, la gabbia dell’accademia e dell’ortodossia. Un Citto che ricerca, vive la forza del dubbio, assume su di sé l’azzardo dell’eresia. Rifondare sempre, ci raccomanda Citto, abiurare mai.
PINO STRABIOLI. Ho conosciuto Maselli e avuto la fortuna di fare un piccolo ruolo nel suo ultimo film Le ombre rosse. Un uomo, inutile dirlo, acuto e coerente estremamente gentile e curioso. Il film è sicuramente Gli sbandati, forse perché è stato il suo primo e perché quando l’ha diretto era poco più che ventenne ma già capace di aprirci gli occhi, allargarci lo sguardo e scuotere da subito la pigrizie delle nostre coscienze.
LUCA TELESE. Ho conosciuto Citto tanti anni fa. Quando avevo 23 anni ero il portavoce del gruppo del Partito della Rifondazione Comunista e iniziò una delle tante “purghe” della sinistra col mio licenziamento. Fu un trauma. Ho un ricordo molto affettuoso delle persone che mi furono vicine e Citto fu una di queste. Per me che ero solo un ragazzo si dimostrò di una straordinaria umanità. Ci vedemmo per venti giorni, per me molto drammatici, fra cene, incontri, alcuni nella casa di Sergio Garavini in via Vittorio Argentina. In mezzo a questi incontri, mentre si parlava delle sorti della sinistra che ieri come oggi volevamo più unitaria e gli avversari di Garavini più settaria, si parlava di fatti personali, di storia. Mi raccontava anche della sua passione per la tecnologia.
E poi parlavamo di quello che è il mio film preferito Il sospetto, pensando anche a quanto diceva Marx che la storia si ripete prima come tragedia e poi come farsa, facendo parallelismi tra film e realtà. Citto era molto curioso e chiedeva a me come avessi interpretato il film. Iniziammo una lunghissima discussione sul ’56 e sull’Ungheria, sul personaggio schiacciato tra ortodossia e polizia. E Citto, nel terrazzo di Garavini, si infervorava e urlava “È così. È così, ma molti non lo hanno ancora capito”.
Citto poteva avere milioni di spettatori e l’Oscar oppure una sola persona che aveva visto il film, che magari era come me un ragazzo di 23 anni appena licenziato, ma ci metteva lo stesso entusiasmo, ti dava l’impressione che per lui era la cosa più importante per cui aveva fatto il regista.
Per cui ho il ricordo di questa terrazza, con Citto, Il sospetto, gli aneddoti su Volontè, con un personaggio, mi raccontava lui, cresciuto durante l’interpretazione, che avevano tratteggiato per sottrazione fino all’ultimo primo piano, all’ultima battuta che ho sempre visto come la sintesi della sofferenza di Citto da comunista critico nel raccontare l’ortodossia comunista.
Negli anni, dal 1993 fino al 2019, poco prima del lockdown, ho poi visto Citto tante volte, sempre con Stefania la sua interfaccia con il mondo. Penso agli incontri al Flaminio dove abitava mia suocera, se non ricordo male a pochi metri da una casa in cui hanno vissuto. Un rapporto, soprattutto in quei primi mesi, intensissimo e per me formativo. Si parlava di romanzi, cultura, ideologia. Me lo ricordo con la cravatta, la camicia slacciata, un bicchiere di vino e quel taglio a “paggetto” che a chiunque sarebbe sembrato ridicolo, ma in lui faceva identità.
NICHI VENDOLA. In assoluto il film di Citto che ho amato di più è Storia d’amore, con una Valeria Golino esordiente e già così stupefacente. Dai temi più spiccatamente ideologici, da cineasta militante, alle cose più intime dell’esperienza umana: lo sguardo di Citto era lungo e profondo, la sua curiosità non conosceva barriere. Storia d’amore, girato a metà degli anni 80, anticipa di molti lustri le questioni oggi attualissime dell’identità e del gender: lo fa in una forma allusiva e poetica e con un esito drammatico, perché l’amore include, esclude, cambia i cuori e può essere anche feroce.
VINCENZO VITA. Della cinematografia di Citto Maselli si potrebbe citare tutto, tanto è complessa e composita la sua opera: dagli esordi come assistente di Michelangelo Antonioni e Luchino alla prima opera con Cesare Zavattini, fino all’ultima stagione. Di Maselli ricorderemo sempre e per sempre la miscela inarrivabile tra passione politica e maestria artistica.
Scegliere un film, dunque, è un’impresa ardua. Se, però, si utilizza il registro dell’emozione privata, il dito si ferma su Lettera aperta a un giornale della sera.
Si tratta, com’è noto, di una produzione del 1970, in anni considerati da molte e molti quasi prerivoluzionari. Attorno a quell’utopia, un po’ sognata e un po’ di maniera, si addensavano manifestazioni e seminari. In nome e per conto di un movimento operaio che, invece, richiedeva rigore e concretezza.
Tuttavia, quel clima particolare non vi sarebbe forse stato senza una buona dose di velleitarismo borghese, di cui una certa intellettualità salottiera era emblema e goffa estremizzazione.
Ecco, Maselli rende perfettamente testi e contesti di un’epoca lontana, ma ancora attuale nelle nevrosi e nei tic di certa sinistra.
Quasi un prequel di capolavori come La terrazza di Ettore Scola o La grande bellezza di Paolo Sorrentino. Così diversi, e tuttavia così vicini.
La grandezza di un film, come di un libro, si misura dal desiderio di rivederlo o rileggerlo, perché ogni volta si scopre un segno nuovo. Ovviamente, il correre degli anni contribuisce ad arricchire i criteri dell’interpretazione, offrendo spunti di riuso dei meccanismi narrativi in un immaginario maturato nel tempo.
“Lettera aperta” ci interpella con vigore mai sopito sul rapporto tra velleità soggettive e militanza pratica, tra internazionalismi da battaglia navale e impegni solidali effettivi.
Comunque, il quadro che ci raccontava Citto ora è assai sfuocato e persino i salotti sono piccoli e ingialliti. La crisi della cultura e dell’intellettualità nell’età degli algoritmi è terribile. Maselli intuì una discesa, quando ancora sembrava possibile un altro mondo. L’arte è immortale.
Ancora grazie a tutte e a tutti e ciao Citto.
redazionale