Forse bisognerebbe chiedere scusa agli «ecovandali», quei giovani che imbrattano i muri con vernice lavabile per segnalare coi loro gesti che a queste tragedie saremmo arrivati, che le famose opere d’arte sui cui vetri tiravano pomodori ben altri pericoli correvano, quelli di rimanere sommerse, portate via dalle devastanti piene che le piogge intense e concentrate del cambiamento climatico, sono la normalità in un paese che da tempo si sta tropicalizzando.
Ciò che non è per nulla normale è che ad ogni pioggia, modesta od eccezionale che sia, siano sistematicamente associati morti, devastazioni, frane ed alluvioni.
Anzi più a fondo si guarda e più emergono le colpe e le responsabilità: di aver autorizzato un’occupazione del suolo demenziale ed infinita, spesso abusiva che, a fronte di una popolazione di cui si lamenta la bassa natalità ha raddoppiato negli ultimi vent’anni il patrimonio abitativo e disseminato l’Italia di opere pubbliche per la maggior parte inutili, mal scelte, mal ubicate o semplicemente dannose.
Due parole fanno capire le responsabilità dell’intera classe dirigente: disastro colposo. Perché non hanno fatto nulla pur conoscendo i dati sconvolgenti che sette comuni italiani su dieci sono in dissesto e a rischio di frana o inondazione.
Mentre l’Emilia Romagna andava sott’acqua loro tagliavano le risorse alla difesa del suolo lasciandole invece per il Ponte sullo Stretto che unirà la Calabria che sprofonda alla Sicilia che a sua volta frana e si allaga, un bel monumento alla inutilità e alla stupidità, oltre che l’ennesimo favore alla speculazione mafiosa.
Non ci può essere però una valida alternativa a questo governo delle destre se per chi si candida ad esserlo non diventa priorità politica e programmatica ciò che gli e le ambientalisti ripetono da decenni: la più grande e urgente opera pubblica di cui questo paese ha bisogno è la messa in sicurezza del suo territorio.
C’è una verità sconvolgente su questa classe dirigente, quella che sta governando, ma non è esente da colpe neppure chi ora sta all’opposizione: riparare i danni frutta più soldi che prevenirli.
Perché meravigliarsi e indignarsi, mi chiedo, se la notte di uno del tanti terremoti che hanno devastato l’Italia, qualcuno rideva? Sono certo che altri avvoltoi, della stessa risma di questi, staranno fregandosi le mani, davanti agli uffici del presidente della regione Emilia Romagna pensando agli affari che faranno per riparare i danni delle alluvioni.
Il pane con cui si cibano questi speculatori è la cultura dell’emergenza continua, che i decisori politici alimentano.
Nel declino della struttura industriale del paese, due settori invece crescono e si sviluppano: quello delle armi e quello delle catastrofi, che ricostruisce le case crollate, le strade franate, gli argini travolti e lo fa senza mai prima conoscere e riparare la terra su cui sta ricostruendo. Fino a che la cultura dell’emergenza prevale su quella della prevenzione e manutenzione il coma territoriale del “bel paese” crescerà e il comitato d’affari aspetterà ansioso che la prossima catastrofe lo riempia di soldi.
Si destinino le risorse per finanziare i tre capisaldi di una politica di prevenzione: la conoscenza del territorio, la sua manutenzione e rinaturalizzazione e la diffusione su di esso di presidi tecnico scientifici.
Conoscere, per fornire una carta del rischio, a scala 1:5000, che dica con chiarezza a chi amministra dove si può costruire e infrastrutturare e dove no. ma anche quanta terra va restituita al fiume delocalizzando per garantire più sicurezza alla cittadinanza.
Manutenere e rimboschire per garantire il miglior deflusso delle acque e il più efficace consolidamento delle frane. Infine presidi tecnici permanenti in ogni bacino idrografico per informare costantemente le popolazioni e chi le amministra sullo stato del territorio e sulle conseguenze di una perturbazione. In quale cassetto polveroso è stata dimenticata la legge 183 di difesa del suolo con le sue autorità di bacino e la sua scelta pianificatoria?
A ben vedere tutto ciò costerebbe meno di quanto costa ricostruire dopo il disastro, soprattutto offrirebbe più lavoro e maggiore protezione alle popolazioni.
Non è la cementificazione passata che va denunciata, ma quella futura già prevista e finanziata. Chi si indigna per come è stato trattato il territorio abbia il coraggio di dire ad ogni sindaca/o che butti nel cestino tutte le opere previste, o che il disastro emiliano romagnolo deve spingere a mettere in discussione i propositi fossili di questo governo perché bruciare gas e non installare le energie rinnovabili non ci fa transitare da nessuna parte, tantomeno nella sostenibilità, ma continua solo a esporci a maggiori pericoli.
MASSIMO SERAFINI
foto: screenshot You Tube