L’astensione dal voto è una scelta. Libera. Ma c’è un particolare che va considerato. Chi vota si assume una responsabilità: delega ad un soggetto politico ciò che ritiene sia il miglior viatico per cambiare la politica, la società, per migliorare dal suo punto di vista la vita di ciascuno e di tutto.
Chi non vota non si assume nessuna responsabilità e non ha diritto di critica su ciò che gli accade intorno. Se ci si astiene dal voto, ci si astenga per favore anche dal commentare e dal maledire i tempi in cui viviamo.
Chi non vota si assume questa responsabilità: di lasciare ad altri il diritto e il dovere di un diritto conquistato con il sangue delle lotte partigiane.
Chi non vota insulta quelle lotte. E tuttavia va indagato sempre il motivo che porta percentuali altissime della popolazione a non recarsi alle urne. Una politica che ha logorato sé stessa, che ha dimostrato di essere inefficace per il bene comune, trampolino di lancio di corrotti e corruttori, di affaristi senza scrupoli, lontana dall’esigenza naturale, diciamo pure “costituzionale”, di essere l’espressione massima invece del sentire, dei bisogni singoli e collettivi.
Un governo, per quanto sociale sia, per quanto dedito al principio di eguaglianza, non potrà mai essere veramente tale in un regime economico come quello in cui viviamo. Ma per arrivare a gradini sempre più alti di elevazione dei diritti sociali e civili, per emancipare questa società serve la scalata non al potere ma “del” potere. Serve impossessarsene per renderlo inoffensivo contro i lavoratori, contro le persone più deboli e per rovesciare queste dinamiche che provocano il neopauperismo dilagante.
La scelta dell’astensionismo è giustificata solo se si è anarchici. Se di individua nello Stato, prima ancora che nella struttura economica, il nemico da abbattere, allora la scelta ha un senso. Ma se si resta al di fuori da questa concezione della storia e del futuro, allora si fa torto ad un diritto non esercitando un dovere.
Tuttavia il voto, come tutti i doveri, dovrebbe avere più le forme del diritto più che quelle di una specifica missione personale affidata dalla comunità al singolo. Così la Costituzione interpreta anche il ruolo delle nostre forze armate: la difesa della nazione è un diritto della nazione, ma è anche “sacro dovere del cittadino”. Sorvoliamo sulla sacralità che i costituenti hanno inserito nel testo, ma il principio del ruolo di difesa e non di quello di offesa è giusto. Peccato sia sempre così disatteso con inaudita ed ipocrita galanteria istituzionale.
Ma, tornando al voto, se una mancanza c’è stata in questi anni di logoramento del tessuto connettivo tra istituzioni e popolo, ebbene questa è rappresentata dalla presunzione anche della sinistra di riuscire ad intepretare il “comune sentire” sulla base di rapporti di forza che invece si sono trasformati anche grazie ad una sapiente opera di ammaestramento massmediatico.
Il campo televisivo prima, quello di Internet a complemento del primo poi, hanno determinato una direzione del consenso che è stata gestita con grande capacità da chi ha inteso ridurre la democrazia a scelte sempre meno articolate, facendo della semplicità un viatico per un decisionismo più forte, deregolamentando proprio quel patto costituzionale tra i poteri della Repubblica che, almeno formalmente, aveva retto fino alla discesa in campo del Cavaliere nero di Arcore.
La mutazione genetica e antropologica della popolazione è avvenuta sulle basi delle facili promesse, delle scorciatorie e delle vie più brevi da percorrere per arrivare al benessere di un ceto medio tanto trasversale da coinvolgere il padronato confindustriale minore e quella che una volta si sarebbe chiamata l’ “aristocrazia operaia”.
Non ha giovato a tutto questo la fine di soggetti ben riconoscibili come comunisti, di sinistra. Almeno di sinistra. La genericità l’ha fatta da padrona, gli aggettivi sono scomparsi e si è preferito chiamare “moderno” l’indifferente, ciò che ha meno etichette possibili e può contenere più culture al suo interno. Il Partito democratico è un chiaro esempio di questa cultura dell’assimilazione multipolare: una sorta di schizofrenia politica delle idee tramutate in tessere da abbinare a seconda del calcolo politico del momento.
Piegata a tutto questo, la scena istituzionale è diventata la nemica della popolazione e la sua emanazione politica ne è, a cascata, stata coinvolta a piene mani. Le mani di chi si rifiuta di andare a votare: “Intanto sono tutti uguali”. “Rubano tutti”. “Non cambierà mai niente”.
E a me viene sempre in mente la frase di un partigiano ogni volta che ascolto queste nenie ossessive del qualunquismo che scivola dai palchi di Beppe Grillo fino nei computer dei più giovani: “No, non dite che non ne volete più sapere. Ricordatevi che tutto (il fascismo) è cominciato proprio perché non ne avete più voluto sapere.”.
Chi non vota si assume questa responsabilità più che davanti alla storia, davanti a sé stesso. Sempre che questa società meschina gli consenta ancora di avere stima di sé stess.
Chi vota scheda bianca o nulla comunque esprime un disagio, un dissenso, ma esercita un atto sociale e politico che è alla base di una libertà democratica che fino a quando esiste non sembra poter mai mancare un giorno…
MARCO SFERINI
8 maggio 2014