Consideriamo il prenderci cura di noi stessi come qualcosa di assolutamente necessario, che ha priorità assoluta su quasi tutto e tutti.
E’ una forma di benevolo egoismo che può essere fatto risalire a quell’istinto di autoconservazione che, pure in chi ha maggiormente sperimentato studi e conoscenze sulla finitudine singolare e sulla trasformazione compartecipe di qualunque materia presente, quindi sulla perturbabilità dell’esistente come qualità inseparabile da tutti e da tutto, non può non manifestarsi.
Pur essendo consci che un giorno non ci saremo più, che saremo altro, magari sotto forma di pulviscolarità che si va riducendo sempre più nell’aria, nel mare, in terra, giustamente poniamo attenzione al presente, in cui noi siamo presenti a noi stessi e cerchiamo di puntare ad una preservazione del nostro esistere nella migliore situazione possibile.
E’ un istinto primordiale, naturalissimo. Ma questo istinto, nel momento in cui viene anche solo parzialmente separato da noi e, pertanto, ci riguarda tendenzialmente meno, scema progressivamente fino ad essere escluso dal novero delle nostre preoccupazioni.
La necessità autoconservatrice si trasforma così in una sorta di egoismo antropocentrico, perché invece di allargarsi ed espandersi mediante la consapevolezza che nessuno animale umano è separabile dal contesto in cui vive e che, anzi, proprio la storia della specie umana ci dice di quanto noi, piccolissima percentuale di viventi su questa Terra, siamo stati di nocumento al pianeta medesimo ed al resto dei suoi abitanti, si restringe, si comprime, si avvita su sé stessa divenendo, per l’appunto, una autoreferenzialità che mira solamente al “si salvi chi può“.
Il sistema capitalistico, e nello specifico la sua concretizzazione moderna nell’ultraliberismo quasi globale, è responsabile di questa disomogeneità, di questa contraddizione che si innesta tra essere umano e animalità in generale, tra noi e tutto quello che ci sta intorno: per prima la natura come fonte primaria di ogni ricchezza, di ogni bene che è anzitutto sostentamento per la sopravvivenza.
Quando parliamo di transizione ecologica, lo facciamo avendo sempre come punto di riferimento il miglioramento delle condizioni di vita prima di tutto umane e poi anche animali e vegetali.
Nel considerare i livelli di inquinamento abbiamo, da troppo tempo, seguito i preconcetti di una narrazione per cui ciò che ammorba l’aria, sempre più irrespirabile, sono i gas di scarico delle auto, delle moto, le ciminiere delle grandi attività produttive. E non c’è dubbio che sia anche così.
Ma, appunto, “anche” e non “solamente“. Le produzioni industriali, almeno a partire da qualche decennio a questa parte, barcamenandosi tra obblighi europei sui quantitativi di emissioni inquinanti e necessità sistemica di fare profitti senza troppi lacci e lacciuoli, hanno da un lato messo dei freni alla loro incidenza antiecologica e, dall’altro, hanno aumentato – per fare un esempio – le produzioni di automobili come i suv.
Siccome questi sono tra i mezzi di trasporto familiari che producono più appestamento dell’aria respirabile, risulta abbastanza lampante che, se da un lato le industrie filtrano le loro emissioni, cercano di contenerle per inquinare meno, dall’altro, la compensazione negativa viene imposta dalla circolazione di automobili che fruttano grandi profitti e che, ugualmente, fruttano anche grandi immissioni di particelle di presente e futura irrespirabilità.
L’approvazione da parte del Parlamento europeo della Legge sul clima, che fissa al 2030 la riduzione delle emissioni nette di gas serra del 55% e al 2050 il raggiungimento della cosiddetta “neutralità climatica“, fa a pugni con le inversioni di tendenza dei singoli Stati.
A partire dal ramo automobilistico, per cui si sarebbe dovuti passare lentamente alla dismissione dei veicoli a benzina per passare a quelli elettrici, la retromarcia è stata vistosa. Il nostro Paese ha votato contro la direttiva europea che mette lo stop alla produzione delle quattoruote, per come le abbiamo conosciute fino ad oggi, entro il 2035.
Altre direttive europee sulla conversione di tutta una serie di comparti produttivi, come quello molto diversificato del mondo agricolo, vengono contestate e combattute nel nome di una giustizia fiscale e di un mantenimento dei posti di lavoro che sono utilizzate come alibi per non rinunciare al 4% dei terreni oggi a pascolo e a coltivazione, nel nome del rimboschimento e della riforestazione.
La Pianura Padana ha, da tempo, superato – in particolare in Lombardia e nella zona iperproduttiva di Milano e Bergamo – di oltre ventiquattrovolte i limiti posti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità riguardo le emissioni inquinanti.
Il rischio di una diffusione sempre maggiore di malattie respiratorie, cardiovascolari e di tumori si fa maggiore, di anno in anno. L’intervento politico è al livello dello scaricabarile quotidiano tra comuni e regione, mentre aumenta il calore nell’aria, a causa del mutamento climatico, e l’effetto inquinante assume proporzioni inedite anche in pieno inverno.
Da tutta questa esposizione dei fatti ne restano spesso esclusi i comparti di produzione alimentare, i grandissimi allevamenti intensivi di animali che, da soli, emettono il 24% dell’inquinamento da gas serra su tutto il pianeta. Per dare qualche cifra confrontabile con numeri cui siamo solitamente abituati, se in un anno, per un giorno soltanto alla settimana, smettessimo di mangiare carne, questa scelta impatterebbe positivamente sull’ambiente con una riduzione di emissioni pari ad oltre 7,6 milioni di automobili.
Sempre più evidente, nella formazione globale delle ripercussioni dovute alle produzioni industriali, è il parallelismo che intercorre, dalla A alla Z del processo di formazione di queste merci, tra il commercio mondiale dell’automobile e quello di generi alimentari ottenuti con l’ammazzamento di oltre 700 miliardi ai animali ogni anno.
Questo significa, sulla terra, l’immissione nell’aria di ingentissimi quantitativi di ammoniaca prodotta dal letame accumulato negli allevamenti, oltre ai maltrattamenti atroci cui sono sottoposti questi individui (sì, individui, perché sono senzienti proprio come noi); e questo significa anche un impoverimento della fauna ittica che, nonostante le belle parole di chi aumenta la popolazione dei pesci nelle grandi vasche circolari proprio sulla preservazione dell’ambiente, si va sempre più diffondendo.
Gli allevamenti intensivi sono la causa dell’immissione nell’atmosfera, oltre che dell’ammoniaca, anche di gas metano (in gergo tecnico viene chiamato CH4) che è molto più pericoloso di altri, al pari del ossido nitroso. E’ tutto un effetto secondario della digestione di ovini e bovini che, allevati così in massa e con tecniche di induzione sempre più veloce di sviluppo e crescita, rilasciano questi gas nei loro escrementi che, a loro volta, danno seguito ad esalazioni che si diffondono nell’aria.
Per avere qualche termine numerico in relazione alla popolazione mondiale, si pensi che in un solo giorno tutti gli animali allevati negli soli Stati Uniti d’America producono 500 milioni di tonnellate di letame: praticamente tre volte tanto la produzione di rifiuti che in ventiquattro ore 250 milioni e più di cittadini della Repubblica stellata depositano nei cassonetti.
In Pianura Padana, fatte le dovute proporzioni, l’impatto tra produzione e ambiente non è affatto diverso. E non riguarda soltanto l’atmosfera, l’ossigeno e ciò che respiriamo. Riguarda pure le falde acquifere: il letame degli animali, infatti, in grosse quantità di decompone in modo tale da inquinare anche rigagnoli, torrenti, fiumi, penetra nel terreno lo permea di tutti i suoi agenti inquinanti.
Più se scrive e più se ne parla, addentrandosi nell’argomento con la dovuta pazienza di una analisi meticolosa di dati e di raffronti tra gli stessi con il nostro stile di vita, più ci si rende conto che il problema complessivo dell’inquinamento atmosferico è qualcosa che di composito e non di facilmente riconducibile soltanto alla questione del mercato automobilistico. L’impegno che una società dovrebbe prendersi, ad iniziare dai governi, sarebbe quello di modificare alla radice la produzione di interi comparti industriali ed alimentari.
Se toccherà arrivare ad un cambiamento in questo senso costretti per la forza delle cose, significherà che saremo già andati ben oltre il limite invalicabile, il punto di non ritorno. Domandarsi se è possibile fare qualcosa, da ciascuno a tutti, è interrogarsi anzitutto sul come viviamo, su cosa utilizziamo per spostarci, su che tipo di consumo facciamo, su ciò che ogni giorno mangiamo.
La questione etica, che richiama da parte umana l’antispecismo e, pertanto, la considerazione di ogni essere vivente come individuo e non come pietanza, sarebbe stata la casella di un virtuoso e coscienzioso avvio di un percorso per analizzare lo sfruttamento dell’uomo su tutti gli altri animali (di cui anche noi facciamo parte). Ma sembra che al ripensamento sul produrre e mangiare animali si debba arrivare a causa dell’insostenibilità ambientale che tutto ciò comporta.
Bene anche così: il consumo di carne, in effetti, di anno in anno diminuisce. Per scelta vegetariana e vegana, per motivi etici ed anche per ragioni di salute (visto che il consumo di prodotti processati industrialmente, è scientificamente provato, può causare una maggiore incidenza tumorale nei soggetti abituati ad una dieta onnivora).
Ma i grandi interessi delle multinazionali dell’hamburger o del pollo fritto, del sushi o del kebab sono il freno maggiore per una rivoluzione cultural-sociale che dovrebbe mettere al primo punto tanto le sofferenze atroci degli animali quanto quelle dell’intero pianeta. La sostenibilità del capitalismo e la transizione ecologica, se messi in una stessa frase, hanno l’intonazione distopica di un anacoluto non voluto ma nei fatti assolutamente tale.
Inquinamento, gas serra, scorie nucleari, deforestazione, spopolamento dei mari e degli oceani, in cui sempre più si riversano sostanze pericolose e maree di plastiche non degradabili… E poi ancora, impoverimento del suolo, coltivato all’impossibile, ad un ritmo così incessante da non rispettare alcun tempo naturale per la crescita di piante, alberi, frutti di qualunque tipo… Così come l’ingrassamento forzato dei polli, dei conigli, l’uccisione di miliardi e miliardi di pulcini, triturati vivi soltanto perché non servono alla produzione di uova…
E ancora… animali costretti a fare i più pesanti sforzi al posto di noi umani, oppure ancora utilizzati nei circhi, nei palii, nelle arene, negli ippodromi… Corse dei cani, combattimenti dei galli. Si scommette su tutto tranne che sul futuro del pianeta. Ed infatti ne subiamo e ne facciamo subire le conseguenze a tutti gli esseri viventi. Che non hanno alcuna colpa, se non quella di aver visto l’evoluzione antropomorfa della materia divenire la principale sembianza dell’antropocentrismo.
L’inquinamento della Pianura Padana non è l’ultimo anello della catena, ma di sicuro, in questa consequenzialità di fattori, è il prodotto quasi finale di una irrespirabilità dell’aria che si può dire tale soltanto perché contiene ancora azoto, ossigeno e argon… Somiglia molto, come immagine, a quella della battuta popolare sulle tracce di sangue nel vino per chi abusa delle sostanze alcoliche.
Comunque la si possa declinare, la situazione è pericolosamente scivolosa verso un declivio che non preannuncia nulla di ottimistico per il prossimo futuro. Abbiamo una certezza: consumare, mangiare e vivere come abbiamo fatto fino ad oggi nel e come mondo occidentale, non lo si può più fare. Iniziare a cambiare i nostri stili di vita, partendo da un riciclo delle cose e da un mutamento delle nostre diete, è un passo essenziale.
Senza una politica su vasta scala che induca a farlo, però, anche le migliori singole buone volontà finiscono per dare una mano insufficiente ad un processo che è davvero globale. Ma, anche se lo sembra, non è inutile. Qui davvero, chi salva un terreno da rimboschire e un pollo dallle friggitrici, salva il mondo intero.
MARCO SFERINI
21 febbraio 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria