La guerra si allarga di fronte in fronte: decine di migliaia i palestinesi uccisi, decine i morti di Israele, e ora centinaia in Libano. Nessuno sa dove si fermerà: diversamente da Gaza, i confini libanesi sono aperti, e per Israele non c’è linea rossa.
Un paese cronicamente e profondamente diviso come il Libano si è trovato unito nella stessa paura: il timore che esploda il telefono o il televisore, il ronzio onnipresente dei droni, i boati dei jet israeliani.
Diventa destinatario della medesima retorica e dello stesso trattamento che Netanyahu ha riservato ai civili di Gaza in spregio al diritto umanitario bellico: evacuazione immediata verso condizioni di impossibilità, pena diventare bersagli.
Alcuni analisti, quelli che sottolineano quanto siano mirati gli attacchi, hanno insistito su come finora Hezbollah fosse stato sì colpito nell’immagine, ma non accecato.
Gli attacchi avrebbero azzoppato solo le forze speciali, lasciando impregiudicata la capacità di fuoco del Partito di Dio, che comunica via cavo. Ci sarebbero stati movimenti di truppe sotterranei, da cui la necessità di bombardamenti massicci preventivi. Il solito copione in cui Israele è condannato ad attaccare preventivamente.
In realtà gli attacchi hanno rotto vincoli non scritti, e la massiccia campagna di bombardamenti che è seguita ha chiarito come l’obiettivo sia riscrivere radicalmente i rapporti di forza. Per quanto Tel Aviv parli di deterrenza, la posta va oltre, prefigurando non l’eccezione, ma l’imposizione di una norma.
La prova sono i nervi tesi e le contestazioni che accompagnano la convocazione dell’Assemblea Generale Onu a New York: in gioco c’è la natura dell’ordine internazionale fondato 70 anni fa, incardinato sul principio di uguaglianza. Ne portano traccia l’opera continua di colonizzazione, espropriazione, ingegneria di territorio e risorse.
E, oggi, la distruzione violenta, aiutata dalla potenza di calcolo dell’intelligenza artificiale, delle condizioni che rendono possibile la vita, così come gli innumerevoli episodi di disprezzo dei vivi e anche dei morti.
Si sta affermando che ci sono ragioni, non ultime la forza, per le quali le vite di alcuni meritano, mentre altre, colpevoli o meno, sono una minaccia che va demograficamente contenuta. È il codice inscritto nelle umiliazioni ai checkpoint militari israeliani, che ha meno a che fare con la sicurezza della società che dichiara di proteggere, che non con un messaggio circa chi comanda, e circa il valore delle vite dei comandati.
Arrivato alla fine del suo incarico, il capo della diplomazia dell’UE, Josep Borrell, ha constatato come ovunque vada si trovi a dover rispondere all’accusa di agire con due pesi e due misure. Emmanuel Macron si è dichiarato colpito da «quanto stiamo perdendo nel Sud Globale».
Il ministro degli esteri cinese Qin Gang ha redarguito la sua omologa tedesca, Annalena Baerbock, ricordandole come «la cosa di cui la Cina ha meno bisogno è una maestra occidentale».
I Paesi del Sud da sempre accusano l’Occidente di difendere l’ordine internazionale – che significativamente non chiamano più liberale, ma «fondato sulle regole» – solo quando risulta conveniente. Per dirla con il titolare degli Esteri indiano, gli europei credono che i problemi dell’Europa siano quelli del mondo, ma che i problemi del mondo non siano dell’Europa.
Lo stesso Volodymir Zelensky, per sua parte, ha annunciato la preferenza per una conferenza di pace sull’Ucraina in una capitale del Sud del mondo.
A cosa ha portato, dunque, l’ottimismo a lungo ostentato dalla Casa Bianca, circa un accordo negoziato sul cessate il fuoco a Gaza? Washington potrebbe dare segnali in diverse direzioni, iniziando dalle proprie forniture d’armi o dal proprio seggio all’Onu. Eppure, in affanno ormai su tutte le crisi regionali, finisce per mostrare una poco convinta comprensione davanti alla logica israeliana dell’«escalation che serve a de-escalare il conflitto».
La stessa logica che guida la propagazione della guerra in Libano, ma che non viene riconosciuta agli ucraini quando insistono sui missili contro le basi di lancio in Russia.
Quanto può reggere ancora la legittimità di un’impalcatura giustificatoria incoerente?
Il ministro della difesa dell’Indonesia (la quarta potenza mondiale nella proiezione al 2050) è esplicito: «Gli occidentali hanno uno standard per i palestinesi e uno diverso per gli ucraini». In un affondo mirabile sul New York Times, Michel Walzer, il teorico delle origini paradigmatiche della democrazia nell’esodo del popolo di Israele, conclude che le campagne belliche di Israele non trovano giustificazione nella dottrina della guerra giusta.
All’origine delle fratture all’Onu, del multipolarismo russo, della ‘diversità di civiltà’ cinese e dell’incrinarsi delle regole, prima ancora dell’invasione dell’Ucraina, c’è l’invasione americana dell’Iraq nel 2003 – alla quale noi italiani ci accodammo dichiarandoci ‘non belligeranti’; ci sono gli abusi perpetrati e condonati nel nome della ‘guerra al terrore’; gli accordi con le dittature per imprigionare migranti.
E c’è il rifiuto a condannare a qualunque azione di Israele, anche quando, davanti al proprio fallimento, un Netanyahu nel mirino della giustizia penale internazionale trasforma la guerra in fine, trascinando l’Occidente e le democrazie verso l’illusione di dominare contraddizioni sempre meno sanabili.
Donald Trump ed Elon Musk non sono che alfieri di questa illusione gerarchica. Mai come davanti all’allargarsi senza argine della disumanizzazione e della guerra è necessario domandarsi quanto un mondo retto da due standard possa essere diverso da un mondo senza regola.
FRANCESCO STRAZZARI
foto: screenshot ed elaborazione propria