I virus hanno una capacità di adattamento così celere da sorprendere persino gli scienziati che li studiano incessantemente. Il governo inglese annuncia al mondo che è stata scoperta una variante dell’attuale Covid-19, già classificata con una sigla irripetibile, piena di lettere e numeri, che sarebbe molto più infettante. Addirittura il 70% in più come capacità di diffusione rospetto a quel coronavirus cui ormai da un anno siamo abituati a fare riferimento.
Non si può dire che la stessa capacità di adattamento la abbiano gli esseri umani, che pure sono abitudinari, ma la cui resilienza (in senso psicologico e anche strettamente materiale) nei confronti della pandemia è stata messa a dura prova dal sali e scendi della curva dei contagi.
La rivoluzione, che ci ha letteralmente presi alla sprovvista dallo scorso febbraio, è una mutazione ininterrotta, tra alti e bassi, tra cifre che si estendono paurosamente ed altre che illudono, rassicurano e fanno sperare nella ripresa dei rapporti sociali che, comunque, stando alle cronache, sembrano venire sempre dopo quelli economici. Basta scorrere i corsivi sui quotidiani e accorgersi che in questo Paese sembrano essere messi alla prova soltanto ristoratori, baristi e commercia
Chef stellati, con qualche malcelata simpatia di estrema destra, promettono una azione di massa contro il governo che potrà essere oggetto di rimproveri e critiche più che giuste, ma che non ha certo trascurato il settore del commercio, dell’alberghiero e delle partite IVA nel mettere in campo una serie di rimborsi che, facendo i dovuti calcoli forniti dal ministro Gualtieri, ammontano – al momento – ad oltre 3 miliardi e mezzo di euro! Una cifra spaventosa, titanica, galattica per davvero, che merita il grassetto per risaltare agli occhi dei più critici.
Eppure le lamentele non mancano, in qualche caso sono anche giustificate se si tratta del ristorantino a meravigliosa tipica conduzione familiare che produce menu locali, pietanze tipiche di un paesino adagiato sulle belle colline umbre o sui monti del Trentino, oppure di un locale nel cuore di Roma che offre una carta di vini che privilegiano le viticulture dell’italico suolo.
Sono proprio questi i locali che maggiormente patiscono gli effetti a lungo termine della pandemia. Ma quando lo chef stellato dichiara di aver perso in un anno più di un milione di euro nel corso di questo disgraziatissimo 2020… Beh… che dire, è evidente che il primo pensiero va a tutti i dipendenti che non sono di certo ricchi come lo chef mezzo verde Lega e mezzo nero neofascista (forse più che altro menefreghista e ignorantemente populista). Senza quei lavoratori, nessuna grande firma della grande cucina italiana potrebbe tenere aperti i ristoranti in mezza Italia.
E’ un elemento, questo, che ci si dimentica volentieri, pensando che la ristorazione siano soltanto i “datori di lavoro“: la compartecipazione produttiva, a tutti i livelli, in ogni ambito, viene sovente tralasciata anche dalle inchieste giornalistiche che sottolineano il crollo del cosiddetto “made in Italy“, delle “eccellenze” rappresentate dai grandi nomi di cuochi che fanno poi gli spot per le patatine o per il detersivo che meglio toglie le incrostazioni dalla lavastoviglie insieme all’unto e al grasso sulle teglie.
Dichiarazioni di esponenti dei sindacati dei commercianti sono ingenerose tanto quanto appaiono sotto forma di rivendicazioni che paiono non avere mai una fine: lamentano le tempistiche delle chiusure come pregiudiziali per i rifornimenti fatti in previsione di un Natale e di un Capodanno “aperti“; giorni in cui si sarebbe potuto lavorare e incassare quel tanto da riequilibrare i magrissimi bilanci del 2020. E’ una detrazione che ha un senso compiuto, ragionevole, almeno ponderata e non lasciata al furore del momento, alle padelle tricolori brandite come arma rivoluzionaria contro il governo e contro la gestione globale della pandemia.
Queste organizzazioni, e tanti dei loro autorevoli e danarosi aderenti, sembrano non accorgersi che c’è tutto un mondo del lavoro salariato che è in una crisi alquanto peggiore di quella del commercio. Sembra non basti scriverlo o ripeterlo. Pare che si debba ricordarlo ancora una volta: esistono lavoratori che non sono “imprenditori” e che non hanno alcuna possibilità di cumulare profitti nei conti correnti bancari, per il semplicissimo fatto che non ne possono produrre. Ricevono solo magri salari, sono spesso precari e non hanno la garanzia, né in tempo di pandemia e né in tempo – diciamo così… – “normale“, di una stabilità salariale che consenta loro di acquistare un appartamento, di evitare lustri e lustri di mutuo, di potersi inventare una famiglia e di vivere fuoriuscendo dal limbo odioso della sopravvivenza quotidiana.
Chef stellati che fanno chiassose comparsate televisive, che brandiscono le padelle tricolorate, che sbraitano e piangono lacrime megaresi perché perdono un milione di euro in un anno, non sanno nemmeno lontanamente cosa vuol dire non poter perdere niente, perché non si ha niente da perdere, perché il proprio conto in banca è prosciugato e i giocattoli per Natale ai propri figli li si va a cercare in qualche raccolta di mutuo soccorso organizzata dall’ARCI, dalle associazioni di quella sinistra di base che tutti danno per morta e che invece esiste e prova a rilanciare una solidarietà diffusa e tutt’altro che fuori di moda.
Milioni di moderne famiglie proletarie, larga parte del cosiddetto “ceto medio” in cui rientrano a pieno titolo i commercianti di prossimità, di quartiere, di zona, quelli che si conoscono da una vita e che sono esterni ai circuiti dell’impersonalità mercantilista delle grandi catene di distribuzione diretta (per non parlare di quelle “online“), sono le classi sociali che già oggi sentono tutto il fardello ingombrante e doloroso dell’anno orribile che sta per finire. Non c’è ristoro alcuno per loro, che possa permettere, una volta rimessa in moto l’economia dello sfruttamento e dell’accumulazione dei profitti, di cancellare il gravame del mutuo, le rate dell’automobile o della moto del figlio, i piccoli fastidiosi debiti contratti con amici, parenti…
Sono mondi diversi, classi contro classi, che si fa finta di tenere insieme in una unica umanità produttiva: dove però c’è lo chef stellato che perde un milione di euro, dimentica tutti i profitti che ha fatto nel corso della sua vita e che possono essersi polverizzati solo se li ha giocati tutti al casinò o investiti in qualche ardita speculazione borsistica.
I dipendenti, non c’è niente da fare… dipendono. E per questo sono legati al doppio cappio della pandemia e dei loro padroni che non pensano ad una patrimoniale, ad una sacrificio una tantum per aiutare il Paese, ma solo a come risollevare la loro filiera di ristoranti e di bar che sembrano gli unici settori in Italia a far girare l’economia.
Tutto il resto è noia, forse. Probabilmente è così poco interessante perché riguarda milioni di lavoratori e di lavoratrici che, teniamolo bene a mente, non hanno quei risparmi che vantano gli chef stellati o i grandi industriali che si dimenano in anatemi perché, purtroppo, nel 2020 non hanno potuto sfruttare a dovere la forza-lavoro che, da sempre, spremono a più non posso. Senza offesa per nessuno… In fondo, è così che funziona il capitalismo.
MARCO SFERINI
20 dicembre 2020
Foto di ErikaWittlieb da Pixabay