Che specie di comuniste e comunisti vogliamo essere?

Qualunque sia la tattica politica, ammesso che esista anche una strategia di più ampio raggio che la comprende, che la sinistra di alternativa intende intraprendere nelle prossime stagioni, tanto...

Qualunque sia la tattica politica, ammesso che esista anche una strategia di più ampio raggio che la comprende, che la sinistra di alternativa intende intraprendere nelle prossime stagioni, tanto elettorali quanto, anzitutto, di lotta sociale e popolare, nessuno può astrarsi dai precedenti del recente passato e ritenere che si possa individuare qui, nell’oggi, una sorta di scenario completamente nuovo e differente.

Tanto la via alleantista quanto quella della costruzione di un polo dell’alternativa sono state provate e riprovate ripetutamente.

Siccome, mutatis mutandis, le dinamiche dialettiche della vita politica del Bel Paese sono in preda, anche adesso, di un recupero del bipolarismo come elemento cardine della distinzione tra i due grandi blocchi di forze che si avvicinano e si amalgamano in vista delle tornate elettorali e delle rispettive postazioni di governo, in fin dei conti le considerazioni che si possono svolgere ricalcano oggettivamente problemi, criticità e contraddizioni già ampiamente viste e sperimentate.

Si pone, quindi, per la sinistra di alternativa il dilemma del bivio: che cosa fare alle regionali? Presentarsi in alleanza col cosiddetto “campo largo” o tentare la strada di un tertium datur? Il dibattito interessa, più di tutte le altre piccole formazioni autocelebrative di un comunismo d’antan o alterigiamente depositarie di ragioni di classe che escludono qualunque dialogo con altri partiti, quella che è l’erede delle eredità del movimento anticapitalista in Italia da oltre trentanni: Rifondazione Comunista.

Nei prossimi mesi si avvierà un percorso congressuale che, già adesso, è nei fatti iniziato e che vede, se non contrapposte, quanto meno su posizioni nettamente distinte due tendenze: una rappresentata da Paolo Ferrero e dalla sua area raccolta intorno alla rivista “Su la testa” che punta all’autonomia del PRC rispetto al “campo largo“, ad una sua partecipazione ad un cammino federativo con – a quanto sembra dagli esempi emiliano-romagnoli e liguri – Potere al Popolo! di Granato e Cremaschi e con il PCI di Alboresi.

L’altra posizione tattica è riuniata attorno al resto del gruppo dirigente di Rifondazione che distingue tra autonomia e isolazionismo, non escludendo affatto la progettazione di una maggiore convergenza tra le formazioni della sinistra di alternativa ma considerando questo un passo che non determina, di per sé, una rottura totale col resto del progressismo italiano.

Un progressismo che una certa fanatizzazione delle incoscienze impedisce di scorgere in partiti indubbiamente molto lontani da Rifondazione Comunista, come PD e Cinquestelle, ed anche in forze più afferenti alla nostra cultura politica e sociale (come AVS di Fratoianni e Bonelli), ma senza ombra di dubbio convergenti – almeno nella fase attuale – su una serie di tematiche che riguardano la vita quotidiana, la sopravvivenza di milioni e milioni di quelli che potremmo chiamare “moderni proletari” o, anche, il “nuovo ceto medio“.

Soltanto una abbacinante cecità, conseguenza di una miopia politica pregressa e datata ormai alcuni lustri, non fa distinguere tra politiche economiche e politiche civili ed umanitarie. Siamo tutti consapevoli che i diritti sociali sono alla base di tutti gli altri diritti: non fosse altro perché le condizioni materiali di ciascuno di noi – come ci ha insegnato Marx – determinano il nostro essere cittadini, uomini e donne che devono potersi esprimere nella loro complessa unicità giornaliera entro una collettività che muta di continuo.

Ma l’errore che non dobbiamo commettere è considerare impossibile una parte del cammino politico nella difesa dei diritti tutti, accanto e insieme alle altre forze del progressismo italiano, perché queste stesse tradiscono (e lo fanno anche molto platealmente) valori imprescindibili di quella che per noi è (e dovrebbe essere) una moderna idea di sinistra vera, di sinistra che aderisce alla libertà, all’uguaglianza, alla fratellanza.

Il PD in Europa si divide sull’invio delle armi a Kiev. I Cinquestelle votano invece compattamente contro, così come AVS. Che cosa facciamo noi? Mettiamo tutto insieme e sosteniamo che con queste formazioni non si parla e non ci si raffronta perché le contraddizioni democratiche sulla guerra sono talmente evidenti da impedire alle nostre coscienze dure e pure di raffrontarci?

Siamo noi comuniste e comunisti che abbiamo bisogno di preservare una integrità identitaria o, partendo da questa, vogliamo invece provare ad aprire nuovi spiragli di contraddizioni e sostenerle laddove esistono per dare più forza alle posizioni pacifiste, internazionaliste e contro ogni tipo di riarmo?

Sussistono, quindi, due approcci differenti e veramente opposti rispetto a ciò che Rifondazione Comunista vorrà fare ed essere nel prossimo futuro. Due culture politiche che, nel corso di questi ultimi anni, si sono ripresentate e, in un certo senso, sono anche evolute nell’essere vissute dal corpo del Partito.

Ferrero e la sua area pensano che Rifondazione Comunista debba seguire l’itinerario del consolidamento dell’alleanza con le altre forze anticapitaliste e di alternativa. Lo penso anche io. Ma se questa diviene la precondizione isolazionista rispetto al resto della sinistra che – lo si voglia o no, lo si accetti o meno, lo si neghi pure – esiste ed è in Parlamento e in altre istanze istituzionali di vario livello, allora la corretta tattica dell’edificazione di una nuova soggettività plurare neo-anticapitalista si scontra con la realtà dei fatti.

Ed i fatti ci dicono che il radicamento sociale è possibile per una forza comunista soltanto se viene considerata come elemento utile, capace di incidere nelle profonde ferite che il liberismo ha aperto in una comunità nazionale in cui l’egemonia di un incultura di destra fa breccia perché i valori della sinistra sono stati dipendentemente variabilizzati alle fluttuazioni mercatiste e non sono, invece, stati più correlati con i veri bisogni sociali. Le analisi che abbiamo fatto nel corso di questi decenni ci hanno indotto a scrivere fiumi di parole in documenti in cui annunciavamo sempre una ripartenza.

Una ripresa o sul fronte alleantista ma, a dire il vero, archiviata la stagione della desistenza ulivista e dell’internità al L’Unione, così come quella de La Sinistra L’Arcobaleno o della più felice lunga parentesi della Federazione della Sinistra, molto di più su quello del tentativo di dare vita a ciò che, di volta in volta, abbiamo definito “terzo” o “quarto polo“. In entrambi i casi, come già accennato, non si sono avute delle aperture di fase così nuove da poter dire: ecco, questa è la strada giusta.

Non si è trattato soltanto di sconfitte elettorali che hanno mortificato le speranze, deluso le aspettative o costretto a considerare sempre nuove sconfitte e percentuali quasi irrisorie come fortilizi in cui resistere per esistere e insistere. Quello che è mancato è prima di tutto un progetto condiviso: una volta per causa di Rifondazione, un’altra per causa di Potere al Popolo!, e poi per chi sa di chi, tanto i cartelli improvvisati quanto i progetti che parevano avere un più lungo respiro (come Unione popolare), sono franati nella consunzione e nell’indifferenza.

Non si comprende bene se noi siamo stati parte attiva in questa inedia consumante energie, strutture e slanci emotivi, oppure se ne siamo stati preda e quindi, in un certo qual modo, vittime. Ma gli alibi stanno ormai a zero. Perché il tempo è davvero scaduto. Chi non distingue tra le destre meloniane e salviniane che governano e il possibile “campo progressista”, potrà anche rivendicare una coerenza a tutto tondo, ma finge di non sapere che alcune differenze ci sono. E non sono poche e irrilevanti.

Qui non si tratta di programmare nel prossimo congresso di Rifondazione Comunista una internità senza se e senza ma ad una alleanza con le sinistre moderate e le altre forze politiche affini. Qui si tratta di scegliere che specie di comuniste e comunisti vogliamo essere: uno stimolo per noi stessi e per il resto della politica italiana (obiettivo ambizioso ma necessario) lavorando nei settori sociali e civili più fragili e deboli della popolazione, oppure un punto di testimonianza anche attiva ma rivolto esclusivamente su sé stesso?

La collaborazione che abbiamo messo in essere con le raccolte di firme referendarie sull’autonomia differenziata e, proprio in queste settimane, sulla cittadinanza è l’evidente possibilità di stabilire con la sinistra, con le forze ecologiste e con anche una parte delle altre forze più moderate una sinergia che porti al miglioramento di condizioni sociali, civili, culturali e morali in una Italia in cui si fanno avanti le leggi autoritarissime come il Disegno di Legge 1660 sulla sicurezza.

Di fronte a questa deriva retriva, conservatrice e reazionaria non possiamo lottare distanziandoci dal resto della politica. Dobbiamo rivendicare le nostre idee, i nostri presupposti e progetti, la nostra autonomia di forza anticapitalista e antiliberista, ma dobbiamo anche mettere queste idee e questi presupposti e progetti al servizio di una causa immanente che è importantissima se vogliamo proseguire nelle nostre più specifiche lotte.

La ricostruzione di una forza sociale e politica modernamente anticapitalista non passa attraverso nostalgie del passato o riconfigurazioni simboliche di partiti enormi, grandi e titanici che, purtroppo, non ci sono più. Ti potrai anche chiamare Democrazia Cristiana, Partito Socialista Italiano, Partito Comunista Italiano, ma se dietro di te c’è solamente la tua voglia di trascinare nel presente un passato che non ritorna, allora tutto questo è pura immaginazione. Non è progetto politico, ma edonismo politico.

La storia ultratrentennale di Rifondazione Comunista merita più rispetto. E glielo si conferisce valorizzando ciò che di questa importante comunità politica e civile rimane in un presente in cui l’offensiva delle destre si fa sempre più aggressiva. Non dobbiamo esagerare il pericolo, ma non dobbiamo nemmeno trovarci nelle condizioni di chi nel 1922 in Italia, o nel 1933 in Germania, assisteva al sopravanzare dei nazionalismi fascisti e nazisti e non aveva la benché minima sensazione della portata del pericolo.

Se allora i socialdemocratici hanno collaborato, col centro, all’affermazione – tanto a Roma quanto a Berlino – di regimi che venivano reputati passeggeri, meteore del presente in una storia futura dominata dalle classi dirigenti borghesi, oggi possiamo evitare che questo errore si ripeta. E se noi comunisti possiamo servire a questo scopo, è giusto che ci prendiamo la nostra parte di responsabilità.

MARCO SFERINI

21 settembre 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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