Nessuno Stato potrebbe reggere ad una regionalizzazione esasperata dei poteri come quella che è venuta allo scoperto in Italia, sotto la cappa infausta della pandemia. I movimenti prima federalisti, poi secessionisti, poi ancora neo-nazionalisti e sovranisti, hanno ricercato da sempre un’autonomia locale che non corrispondesse al decentramento amministrativo previsto dalla Costituzione, ma che fosse invece un vero e proprio “strappo” dei poteri, una acquisizione degli stessi per diventare contrappeso economico più che politico.
La riforma del Titolo V della Costituzione ha introdotto una equiordinazione che ha consentito alle Regioni di poter legiferare al pari del Parlamento su materie che dovrebbero riguardare unitariamente l’intero territorio della Repubblica. Temi tutt’altro che secondari, sostenuti da una autonomia finanziaria che consente (o consentirebbe…) agli enti preposti di disporre per tutti i cittadini trattamenti eguali, quanto meno simili, differenti soltanto per le specificità territoriali. Ma mai a discapito dei diritti fondamentali previsti dalla Carta del 1948.
Nella difficile gestione di uno Stato unitario, repubblicano, democratico e parlamentare, centralista come il nostro, dopo millenni di localismi comunalisti e piccole patrie egoiste, la Costituzione pareva aver trovato il fulcro su cui far vertere l’asse di equilibrio tra governo e regioni. Ben oltre la realizzazione delle stesse, avvenuta soltanto dopo il 1970, il rapporto tra centro e periferia non si è tanto trasformato in un conflitto tra muncipalismi di vecchia data, quanto in un dualismo critico che è una sfida permanente tra giunte regionali e governo. Venti tipi di dualismo differenti, oltre tutto. Un incubo.
I motivi di una tracimazione così caotica dagli argini di una condivisione armonica della gestione amministrativa, politica e sociale del Paese sono tanti: diversità di orientamento politico, interessi economici privati che vengono difesi dalle amministrazioni regionali a tutto scapito del bene comune e del pubblico, presunzione di giustizia per via di maggiore conoscenza delle realtà locali.
Quali che siano le motivazioni dirimenti, quelle che concorrono attualmente allo anti-Stato caotico che sta impedendo anche una corretta e chiara comunicazione sulle norme da seguire, è lapalissiano il fatto che, mentre il virus corre all’impazzata, mentre le istituzioni si scontrano a colpi di ricorsi giudiziari per sospendere la proclamazione di zone rosse o arancioni, mentre i comportamenti dei cittadini sono molto più rilassati rispetto all’autodisciplina determinatasi con la grande paura di marzo e aprile, il sistema sanitario va letteralmente a sbattere.
Non esistendo una uniformità di gestione della sanità pubblica, ne consegue che nemmeno le cure, le prestazioni corrisponderanno a questo principio fondamentale e imprescindibile riferito all’insieme unitario della popolazione. I DPCM danno un indirizzo ordinante e uno raccomandante: il primo dovrebbe valere senza possibilità di interpretazione ed emendazione; il secondo parla di più al carattere comportamentale di ciascuno di noi. Siccome il primo indirizzo è altamente sovvertito dalle cavillosità normative delle ordinanze regionali – e persino comunali – il sovrapporsi di norme che ne nasce è, questo sì unitariamente, il punto di partenza di una colpevole ed esiziale gestione della sanità locale che va a braccetto con l’irresponsabilità di tanti cittadini che non riescono ad avere più fiducia nelle istituzioni.
Troppe voci, nessuna voce. Troppe norme, nessuna norma. Ecco a cosa siamo arrivati: al si salvi chi può, alla deresponsabilizzazione antisociale e antisanitaria che va imputata tanto ad uno Stato e a Regioni ingestibili quanto ad una popolazione che ne segue l’esempio triste, mestamente moribondo, di una democrazia priva di una muscolatura organizzativa da un lato e civica e civile dall’altro.
Con il protrarsi della pandemia si sono fatti sentire gli effetti a lungo termine del confronto tra Stato e Regioni: se a marzo l’emergenza era improvvisazione e corsa contro il tempo, ad ottobre si sono avvertite le conseguenze di un posizionamento istituzionale degli enti locali che hanno organizzato soltanto i loro interessi localistici, gestendo la crisi sanitaria dal punto di vista dell’interesse privato in quanto a forniture tanto di camici quanto di respiratori, di mascherine, di nuovi ospedali per soli malati di Covid-19.
Il caso della Calabria – ha ragione la CGIL – è un dramma nel dramma, è una vera e propria tragedia: ne ha i connotati più prossimi. Se non fosse che sopravviviamo in un anno veramente luttuoso, si potrebbe riderne un poco pensando che un commissario, lì messo per gestire proprio l’emergenza Covid-19, dichiari con naturalezza inquietante alle televisioni che un piano anti-coronavirus lui non lo ha mai fatto e che non sapeva o forse lo sapeva, forse se ne era scordato, forse era in stato confusionale o peggio, drogato, quando lo hanno intervistato.
Siamo oltre ogni immaginazione, per davvero. Sembra di stare in qualche vignetta di Maramotti, Vauro o Biani. Putroppo però qui c’è ben poco da ridere. Nemmeno tanto a denti stretti.
Il fallimento della riforma del titolo V è evidente, sotto gli occhi di tutti: è un disastro legislativo, di competenze dirette e indirette, di interlocuzione tra le istituzioni repubblicane e pone la questione di un ripensamento radicale del ruolo delle Regioni italiane. Non dovrebbero essere di intralcio all’eguaglianza tra i cittadini. Non dovrebbero differenziare penalizzando i diritti sociali e civili scritti nella Costituzione. Dovrebbero valorizzare ogni peculiarità dei singoli territori: invece si sono dimostrate essere, nella maggior parte dei casi, delle accumulatrici di potere gestito senza una visione di insieme, senza pensarsi come parte del Paese unito, bensì come parte particolare di un Paese diviso.
Così non può andare avanti. Soprattutto pensando al futuro lontano. Ma nemmeno poi tanto. Se la pandemia sarà sconfitta entro la prossima estate, facendo i dovuti scongiuri, non è detto che non si debba affrontare qualche altro rischio sanitario, anche di diversa intensità e impatto sulla popolazione e sull’economia del Paese. Ripetere gli errori attuali sarebbe una mezza scontitta in partenza. Per questo il Titolo V va nuovamente riformato e vanno trasferiti allo Stato tutti i poteri che riguardano la gestione di beni comuni nazionali, di interessi comuni nazionali, lasciando alle Regioni solo la mera applicazione delle disposizioni di Parlamento e governo.
La centralizzazione dei poteri viene avvertita come una sorta di “dominazione” dello Stato sui territori: uno Stato veramente centralista non impone ma dispone; non ordina ma delega. L’Italia è stata così male interpretata dai fautori delle riforme costituzionali in tal senso che ha abbandonato il centralismo che le era congeniale per derivare scivolosamente verso un federalismo spurio, un surrogato amaro di una riforma delle istituzioni locali che ha finito per sposare le insane tesi leghiste (ed anche di parte del centrosinistra) sull'”autonomia differenziata“.
Adesso si deve arrivare alla chiusura totale nazionale per almeno un mese: altrimenti a salvarsi saranno soltanto coloro che, nella disperazione di un sistema sanitario in pieno cortocircuito, potranno permettersi cure a pagamento e privilegi grazie alle ricchezze cumulate. Nel rispetto dell’eguaglianza di tutti i cittadini, dei loro diritti universali, primo fra tutti quello alla salute, va chiuso il Paese. Ora. Senza più altro tempo da perdere. Se questo non sarà fatto, lo scenario del 2021 sarà comunque una tabula rasa economica, ma colpirà non una minoranza della popolazione, bensì quasi tutta…
MARCO SFERINI
10 novembre 2020
Foto di Alexey Hulsov da Pixabay