Cento giorni di una guerra che pochi (governi) vogliono finisca…

Forse soltanto la pandemia ha aperto uno squarcio così lacerante e ampio, al pari della guerra, tra l’opinione pubblica e le direttive di politica estera (ed interna) dei governi...

Forse soltanto la pandemia ha aperto uno squarcio così lacerante e ampio, al pari della guerra, tra l’opinione pubblica e le direttive di politica estera (ed interna) dei governi europei.

Differente il discorso per il caso statunitense: nella Repubblica stellata la febbre bellica non è salita come nel Vecchio continente, per una serie di ragioni che riguardano prima di tutto la lontananza fisica del conflitto dal territorio americano ma, prima ancora, l’approccio che l’amministrazione Biden ha inteso seguire in tutti questi mesi, mantenendo una comunicazione fondata sulla comprimarietà delle responsabilità globali verso l’Ucraina.

Far sembrare la guerra europea e non mondiale per il semplicissimo fatto che materialmente è tutta confinata entro il perimetro del paese aggredito, mentre, oggettivamente e praticamente riguarda un po’ tutti i continenti dal punto di vista strutturale, economico, finanziario.

Gli USA hanno buon gioco nel presentarla come una guerra tra Mosca e Kiev, come, del resto, la mostrano anche le istituzioni europee: le dichiarazioni di Stoltenberg si sono diradate, quasi sono sparite. Il ruolo della NATO invece no, ma procede carsicamente, con il coordinamento del rafforzamento delle truppe alleantiste su tutto il fronte che va dalla Lapponia fino al Mar Nero.

Nonostante tutta questa mistificazione, in parte endemica e connaturata al bellicismo di ogni epoca, dopo cento giorni di guerra le opinioni pubbliche rimangono fermamente convinte – secondo i sondaggi dei più rinomati istituti di rilevazione e statistica – che l’invio degli armamenti al governo di Zelens’kyj sia stato, se non proprio un errore, quanto meno una ardita imprudenza che avrebbe potuto allargare maggiormente il conflitto, oltre che sul piano sanzionatorio e antidiplomatico, anche su quello della guerra propriamente detta e fatta.

Allargamento che, per la verità, c’è stato, anche se indirettamente, “per procura” (ormai è una pratica che va per la maggiore…), perché, se non ha riguardato la cruenza di un fronte armato, di certo riguarda una NATO in fase potenzialmente offensiva già da decenni con l’espansione prima nella parte est dell’Europa un tempo sotto l’egida sovietica, ed oggi nei paesi che avevano fatto della scelta neutralista la loro politica di vicinato tra i due ex blocchi della Guerra fredda.

Ma l’invio delle armi a Kiev, di armi sempre più sofisticate e pesanti, superando qualunque iniziale tabu sull’irritabilità putiniana in merito, non ha soltanto tracciato una linea di demarcazione tra il comune sentire e la risposta obbediente anche dell’Italia ai dettami nord-atlantici e americani, ha creato i presupposti affinché l’unica interpretazione del conflitto passasse per la via dello scontro sostenuto a debita distanza, senza impiegare truppe proprie ma demandando agli ucraini il compito di sommare la propria difesa dall’aggressione russa con il consolidamento delle posizioni imperialiste occidentali.

Cento giorni dopo l’inizio della guerra d’Ucraina, il bilancio provvisorio che se ne può fare è desolante: in gran parte, indubbiamente, se si segue la catena logica e cronologica di azione-reazione, causa-effetto, si deve attribuirne la primogenitura al desiderio putiniano di conglomeramento delle vecchie terre imperiali russe entrate nell’orbita occidentale; ma se si fa più attenzione, rifuggendo semplificazionismi buoni solamente per i propalatori di propaganda filo-atlantista e bideniana, ci si renderà conto che molte delle reazioni successive allo scatenamento del conflitto sono, in realtà, delle azioni vere e proprie.

Azioni che, in quanto tali, prescindono dalla reattività che avrebbero determinate prese di posizione e scelte se davvero fossero uniformate ad una equipollenza in termini di “risposta adeguata” all’offensiva russa contro l’Ucraina. Questa è una guerra contro il governo di Kiev più che contro il popolo di quel paese.

E’ una guerra ordita per mettere da parte un governo che certamente non ha le caratteristiche anche attuali del neonazismo ma che, obiettivamente, vellica una certa destra nazionalista, spietatamente tale proprio come i battaglioni ceceni al soldo di Putin.

Non c’è una parte con cui schierarsi, se non quella pace reclamata da un presunto minoritario mondo pacifista e antimilitarista che, smentendo tanti commentatori accondiscendenti verso le (s)ragioni dell’armamento a tutti i costi come unica scelta possibile per far terminare il conflitto (e si vede… dopo cento giorni…), si regge su un asse ideologicamente e culturalmente trasversale che va dalla cosiddetta “estrema sinistra” fino al francescanesimo di un “Avvenire” che fa concorrenza a “il manifesto” in quanto a posizioni arcobaleno e umanitarie.

Le ragioni diplomatiche non avranno efficacia fino a quando a sostenerle sarà Erdogan o fino a quando saranno supportate da un’Europa che applica un sesto pacchetto di sanzioni alla Russia, parallelamente agli USA che, mostrando di essere ancora i padroni dell’Alleanza atlantica, un giorno smentiscono l’invio di razzi ad ampio raggio per Kiev, mentre il giorno dopo sono pronti ad inviarli.

La credibilità del presidente turco in quanto a ricercatore di compromessi finalizzati alla pace è pari a quella di un Putin che impone di denominare la guerra “operazione militare speciale” o a quella di un Biden che tuona in casa propria contro il commercio indiscriminato di armi, mentre le stragi si susseguono ad un ritmo impressionante e mentre il bilancio americano si ingrossa di cifre destinate alle spese militari su sempre maggiore scala.

Cosa è dunque possibile fare dopo tre mesi e mezzo di omicidi, di crudeltà, di orrori del tutto gratuiti, di fenomeni che la guerra si trascina dietro con una inesorabile, ben visibile scia di morte e di sangue? Il ruolo dell’ONU è davvero così residuale e marginale in questa contesa? Il diritto di veto della Russia da un lato e la poca considerazione per l’alta associazione mondiale dall’altro sono destinati a farne un contenitore vuoto, una pura formalità proprio nei momenti di gravissima crisi internazionale?

La sola alternativa alla guerra è la guerra stessa, allora? Come si esce da questo cortocircuito perverso? Come si può far valere le ragioni antimperialiste di un pacifismo che è fumo negli occhi dei governi così come lo è la patrimoniale quando si parla di giustizia sociale ed equità fiscale?

La rassegnazione, come è evidente, è già una sconfitta. Occorre tenere in vita una alternativa anche, ed anzi soprattutto, quando sono proprio le élite politiche e finanziarie a rifuggirla e a vederla come un pericoloso concorrente ideologico e, pertanto, potenzialmente anche praticamente percorribile. Il buon senso dell’umanesimo non è utopia: parlare di pace mentre tutto intorno divampa la guerra e la propaganda di guerra, certo che suona irrituale, fuori dal contesto, privo di significato, persino inattuale e utopistico.

Ma quale sarebbe la giustezza di chi si esercita soltanto nell’applicazione di un pragmatismo rigoroso, non dispersivo nei sogni di fratellanza, uguaglianza e pace che i cortei contro le basi NATO diffondono facendo inorridire i benpensanti? La correttezza di un ragionamento risiede soltanto nel suo sapersi uniformare al coro bellicista? La praticità sensata è esclusivamente quella di chi deforma la Storia e la piega ad un attualismo intransigente, ad una logica dell’oggi che utilizza gli esempi dell’ieri per giustificarsi in quanto tale?

Questi interrogativi sono leciti dopo cento giorni di guerra: dopo cento giorni di investimenti in riarmi di interi Stati, dopo la cesura epocale tra il passato e il presente, tra le convenzioni e le trazioni postbelliche, dal 1945 ad oggi, dopo l’inizio di una nuova stagione dei rapporti geopolitici globali.

Quelli che si impegnano a raggiungere la fine della guerra (non la pace, si badi bene…) mandando quintalate di armi, allargando le alleanze militari “difensive” e creando i presupposti per una reciproca distruzione delle economie degli imperialismi che si fronteggiano, sono gli stessi che accusano i pacifisti di rallentare il decorso del conflitto con le proteste nei porti, ai margini comunque di un potere che riesce a sfuggire, purtroppo, all’azione non violenta di un gran numero di persone, di una larghissima fascia sociale.

Cento giorni di guerra non sono bastati per fermare la guerra. E’ questa la lezione che tutti dovremmo imparare per smascherare i falsi profeti della pace, i veri sostenitori della riconfigurazione mondiale di un capitalismo liberista che non sarà meno spietato una volta che il conflitto sarà, sotto cumuli di cadaveri e di macerie (e di interessi cinici e bari), in qualche modo superato…

MARCO SFERINI

3 giugno 2022

Foto di Pixabay

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