Prima il lockdown generalizzato, poi le quarantene intermittenti nelle regioni colorate di rosso, arancione o giallo per contenere la diffusione del Covid. In nove mesi sono aumentate le diseguaglianza sociali. Ne è convinto oltre il 90% del campione degli intervistati scelti quest’anno dal Censis che ieri ha presentato a Roma il suo 54esimo rapporto. In un paese dove la stragrande maggioranza delle forze politiche in parlamento considera una follia tassare i grandi patrimoni con un modesto «contributo di solidarietà» ci sono appena 40.949 persone che dichiarano un reddito oltre i 300 mila euro annui, con una media di 606.210 euro pro capite. Sono lo 0,1% del totale dei dichiaranti, un milione e 496 mila persone in possesso di una ricchezza che supera 840 mila euro, 40 sono miliardari e sono aumentati in numero e patrimonio durante la prima ondata dell’epidemia. Il 3% degli italiani adulti possiede il 34% della ricchezza. Questo divario tra ricchi e poveri sta aumentando velocemente.
Nella classe media, una categoria composita definita dal sociologo americano Wright Mills «un’insalata mista di occupazioni» tra partite Iva imprenditoriali e lavoratori (artigiani, piccoli e medi imprenditori) professionisti e precari solo il 23% ha continuato a percepire gli stessi redditi familiari del 2019. Già da tempo si registrano forti segnali di proletarizzazione in questa fascia sociale, il Covid ha trasformato la sua parte più esposta in «vulnerabili inattesi» senza incassi né fatturati. Nel ceto medio c’è poi l’altra parte del cielo: il lavoro dipendente. Nel privato è stato per il momento evitato uno tsunami occupazionale nel lavoro subordinato. La disoccupazione «non è un evento remoto», osserva il Censis. È stato rimandato, per ora, dopo il 21 marzo 2021 quando terminerà il divieto di licenziamento. In questa sospensione «il rapporto distingue i più vulnerabili», i dipendenti del settore privato a tempo determinato nelle piccole imprese e le partite Iva, dagli addetti delle grandi imprese. Ma i primi effetti della crisi si sono visti sui precari con i contratti a termine: da marzo a oggi non sono stati rinnovati quasi quattrocentomila.
Si avverte fortissima in questi giorni la tentazione di contrapporre i garantiti ai non garantiti. Invece di pretendere subito una tutela sociale universale per chi non ha un lavoro salariato si attaccano i 3,2 milioni di dipendenti pubblici che hanno un reddito e non corrono rischi. Un riflesso ideologico corale di altre epoche scattato dopo l’annuncio dello sciopero dei sindacati nella pubblica amministrazione il 9 dicembre. L’idea è che non si rivendicano diritti nell’emergenza. Il problema è invece l’opposto: perché oggi in questa crisi non li rivendicano tutti gli altri. Il Censis ricorda, opportunamente, che sono oltre 10 milioni i lavoratori dipendenti, compresi quelli della pubblica amministrazione che attendono il rinnovo del contratto collettivo nazionale. A dicembre ce ne saranno altri 400 mila. L’85,2% dei dipendenti attende l’adeguamento. La crisi del 2008 l’hanno già pagata: blocco degli scatti, allungamento dell’età pensionabile, precarizzazione. Oggi i precari della P.A. sono almeno 370 mila.
Nella società pandemica in basso ci sono 5 milioni di precari: gli «scomparsi senza fare rumore» nei «lavoretti», nei servizi e nel lavoro nero. Il «congelamento» dell’economia ha portato nel secondo trimestre del 2020 a 841 mila occupati in meno e a 1.424.000 che non cercano più lavoro, il 60% dei quali sono donne. Allora chi può risparmia, non spende e si prepara a un futuro peggiore. E poi c’è chi non ha nulla da mettere da parte: il 17% della popolazione, in maggioranza giovani, non può affrontare spese improvvise.
«Bonus economy»: così il Censis ha definito la politica dei «ristori» del governo con i sussidi temporanei a fondo perduto. A ottobre sono stati coinvolti 14 milioni di persone per 26 miliardi di euro. Il rapporto li definisce «ad personam». Lo sarebbero se fossero individuali nella prospettiva di una lunga crisi e di un ripensamento della cittadinanza attiva. Il Censis critica, senza fare troppe distinzioni, «la pioggia di bonus di ogni genere» e l’inadeguatezza dei «ristori» e i loro ritardi. In realtà situazioni simili esistono anche in altri paesi, ad esempio gli Stati Uniti, e non andrebbero confusi gli aiuti insufficienti alle imprese con le tutele che andrebbero garantite alle persone. A queste ultime andrebbero assicurate in maniera incondizionata, come nei fatti è diventato il «reddito di cittadinanza», ma esteso in maniera strutturale com’è stato fatto per le casse integrazioni dove però i lavoratori perdono il loro reddito. Per evitare di buttare soldi dalla finestra si cerca una forza politica capace di trasformare il Welfare e finanziarlo con una riforma fiscale progressiva.
Non è in questo senso che sembra avviata la «classe dirigente» che «pensa all’oggi» e non a un «progetto collettivo» osserva il segretario Censis Giorgio De Rita. Questo «presentismo» non riguarda solo i «dirigenti», ma i «diretti». La mancanza di prospettive oggi può portare alla rinuncia della solidarietà, a pensare, dice il Censis, «meglio sudditi che morti» e alla paura che spinge a chiedere pene esemplari per chi non porta le mascherine. Domani tutto questo può portare alla rinuncia della libertà sociale di tutti.
ROBERTO CICCARELLI
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