C’è qualcuno là fuori?

Una, dieci, cento, mille vite, pure messe temporalmente in fila, non sarebbero sufficienti a sapere se siamo soli nell’Universo. Nemmeno percorrere la velocità della luce con chissà quali astronavi...

Una, dieci, cento, mille vite, pure messe temporalmente in fila, non sarebbero sufficienti a sapere se siamo soli nell’Universo.

Nemmeno percorrere la velocità della luce con chissà quali astronavi e invenzioni del futuro potrà permetterci di conoscere un pezzetto di verità in più sulla altissima probabilità che, sparsi in qualche pianeta nelle miliardi di pianeti, stelle e corpi celesti di varia natura che solamente abitano la Via Lattea, vi siano esseri viventi, senzienti e magari coscienti come noi umani di questa stessa esistenza e dell’esistenza di tutto ciò che ci circonda. E che resta il più grande mistero, quello per antonomasia irrisolvibile.

Non è il “troppo piccolo” che fisicamente intruppa questo cammino conoscitivo, ma il “troppo breve“. E’ vero che solo la vita di ognuno di noi dura al massimo un centinaio di anni e che l’umanità è un fluire ininterrotto di esistenze che si danno, per così dire, il cambio su questo pianeta. Ma è altrettanto vero che millenni e decine di migliaia o milioni di anni sono pur sempre pochissimi rispetto alle distanze che ci separano da un ipotetico primo avamposto abitato, forse simile alla Terra, forse con tante specie di animali umani e non umani come accade qui da noi.

Margherita Hack, ogni volta che le si rivolgeva la classica domanda nel merito, così rispondeva: «Credo del tutto probabile che vi sia vita in altri mondi abitati, ma credo anche che non avremo mai modo di incontrare un extraterrestre. Le distanze non ce lo consentono e il massimo che possiamo sperare è di avere un contatto radio; ma ancora una volta le distanze non ci permetterebbero di avere un minimo di dialogo. In conclusione penso che, comunque sia, siamo destinati alla solitudine; questo non vuol dire che non dobbiamo continuare a cercare. Anzi».

In quell’avverbio finale sta tutto il significato della ricerca scientifica che, pur consapevole dei limiti cui deve obbedire, non smette di studiare, di imparare, di avanzare lentamente verso nuove puntualizzazioni, diminuendo la percentuale di dubbi che si affastellano nelle menti, che sorgono spontaneamente e che sono il motore della ricerca al pari delle intuizioni che nascono dal meticoloso lavoro che ogni giorni viene fatto da chi indaga fenomeni oscuri e prova a dare risposte a problemi tanti diversi quanto importanti per la sopravvivenza di tutte le specie, non solo di quella umana.

Proprio perché l’orizzonte della volta celeste deve essere superato di continuo, fin dai primordi dell’umanità, prima che devastassimo questa nostra piccola casa in cui nessuno è mai venuto da altri pianeti e in un cui nessuno verrà (a meno che non esista il teletrasporto startrekiano e a lunghissimissima distanza), l’osservazione di ciò che ci stava sopra occupava molto del tempo degli antichi: la frenesia moderna dello sguardo rivolto sempre ad altezza (dis)umana, più verso le vetrine dei negozi, gli schermi televisivi, tablet e cellulari, non si era impadronita delle vite di filosofi e anche di semplici cittadini di grandi imperi e repubbliche che discutevano del senso della vita.

E lo facevano col naso all’insù, cadendo in qualche buca, sbattendo contro qualcuno o, invece, riuscendo ad intraprendere viaggi cosmici con la ricchezza inestimabile della fantasia.

Dio stesso viene sempre immaginato come presente prima di tutto “nell’alto dei cieli“; solo recentemente la cosmogonia antica, ricca di miti fatti di carri che solcano i cieli portando il sole a sorgere o di divinità sedute su enormi nuvole vaganti, è stata soppiantata dall’astrofisica che ci ha mostrato e dimostrato come tutto sia molto più semplice e non esistano demiurghi o dei che danno origine o abitano iperuranii e mondi al di là dei ponti di arcobaleno dove spazio, tempo e memoria sono variabili dipendenti da leggi diverse da quelle del nostro mondo.

Si diceva delle recenti scoperte scientifiche. Definibili così perché, in termini astronomici, cinquecento anni sono nulla rispetto ai centomila anni percorsi alla velocità della luce per andare da una parte all’altra della galassia per antonomasia, quella in cui ci troviamo. Ma i miti resistono al tempo. Perché non solo la fantasia umana è una prerogativa necessaria per la sopravvivenza, un comodo rifugio dove ritrovarsi per fuggire dall’opprimente insensatezza della vita cosciente che non può non occuparsi di tutte le altre incoscienze, ma col passare dei secoli si è mantenuta come attitudine a sopperire i limiti dell’oggettività e della razionalità scientifica con il suo esatto contrario.

Dal pensiero magico alla religione, seppure su piani differenti, l’immaginazione umana ha prodotto tutta una serie di combinazione fantastiche che hanno alimentato le allucinazioni più conclamate eppure, proprio per questo, meno apparenti possibili. E’ un po’ il Tertulliano del “credo quia absurdum“: proprio perché qualcosa è impossibile nel regno del possibile, allora si eleva dalla bassezza materialista del quotidiano, va oltre la tridimensionalità comune e assurge ad “Ade” per i greci, “altro mondo” per i cristiani, “Walhalla” nei miti nordici e, più genericamente, nel παράδεισος (“parádeisos“) di più culti, mentre per la saggezza orientale è una “illuminazione” dai tratti meno pomposi e altisonanti ma, certamente, più introspettivi e riflessivi.

Guardare le stelle, della cui materia – osservava sempre Margherita Hack – siamo tutte e tutti noi fatti, può condurre quindi a tre approcci differenti: uno di impronta scientifica e due che sono riferibili a credenze metafisiche, a mondi non reali, a dimensioni non scrutabili. Mitologia, magia, religione non si equivalgono ma si somigliano. Fanno parte di quella “irrazionalità” che – sosteneva l’astrofisica di triestina adozione – «…danneggia la scienza e il cervello…».

Se vogliamo avere delle risposte su come funziona l’Universo dobbiamo cercarle attraverso i telescopi e non certo attraverso quell’immaginazione che, proprio perché stupefacente diventa una sostanza invisibile da cui dipendere, arrivando a negare che l’oggettività sia un valore nella ricerca della verità dei fatti. Se tutto diventa relativo e ogni dimostrazione pure, allora la vittoria dell’incoscienza è possibile e i passi indietro di una evoluzione inarrestabile si possono iniziare ad intravedere.

Così, dopo aver osservato il cielo ed essersi fatte mille domande, una su tutte prevale: siamo soli nell’Universo? Non è una domanda simile a quella sull’esistenza di Dio, ma ci si va molto, molto vicini. L’uno è un quesito laico che può avere potenzialmente una soluzione; l’altra è una speranza contenuta nella domanda stessa. E per questo la fede e la scienza, che pure non sono nemiche, parlano due linguaggi nettamente opposti: l'”affidarsi” ad una verità e il dimostrarla sono due modi molto diversi di vivere il conoscibile e l’inconoscibile, il tangibile e l’invisibile, impalpabile e inafferrabile.

Così, dai tempi primordiali del cammino umano, abbiamo iniziato ad unire immaginazione a speranza, speranza a religione e il tutto in una vita forse più sopportabile ma prigioniera di pregiudizi, superstizioni e racconti così fantastici da poterne scrivere per sempre, tanti e tali sono.

L’uomo sognava di volare ben prima che la scienza gli mettesse sotto i piedi una mongolfiera o un aereo. E sognava di poter respirare sott’acqua come gli abitanti di città sommerse mai esistite. E ha sognato di poter incontrare gli dei, di arrivare alla cima dell’Olimpo, di andare al di là delle nuvole, di scendere negli abissi del regno dei morti, di sconfiggere quella fine della vita e di rendersi eterno.

Il desiderio primordiale di vivere avrebbe dovuto battere le leggi della natura, impedire il disgregamento cellulare, il ritorno a quell’Universo da cui veniamo. Il “polvere siete, polvere ritornerete” di biblica memoria, alla fine, non è altro se non la consapevolezza che tutto si trasforma e niente si annulla e scompare veramente.

Un viaggio fantastico, meraviglioso, affascinante, impossibile da evitare: almeno una volta nella vita tutti abbiamo sognato di essere capaci di vincere la morte, di conoscere esseri extraterrestri capaci di farlo e di portarci magari con loro o di venire a conoscenza delle loro tecnologie. In subordine qualcuno ha provato l’ibernazione, per svegliarsi tra qualche millennio e, chissà, vedere arrivare quegli UFO di cui si nutrono rotocalchi televisivi che solleticano la fascinazione del mistero che alberga in tutte e tutti noi.

C’è qualcuno là fuori?” (edizioni Sperling & Kupfer, Pickwick libri, 2013) è un libro che risponde a due princìpi fondamentali della lettura: il piacere e l’approfondimento. Margherita Hack e il giornalista scientifico Viviano Domenici ci accompagnano, pagina per pagina, alla scoperta dei tanti misteri di fenomeni immaginati come gli avamposti di verità che ci saranno presto rivelate e che, invece, sono soltanto “false notizie“, false aspettative a cui molta, troppa gente ha fanaticamente creduto mentre altra vi si è accostata con la opportuna criticità e la coltivazione utile di un miscredentissimo dubbio.

Dai classici del mistero come l’Isola di Pasqua e i suoi giganteschi “moai” fino all’omino verde di Marte; dalle presunte astronavi dei cerchi di grano a Nazca fino alle “finestre temporali” per viaggiare attraverso la quarta dimensione; dalle piramidi egiziane a Stonhenge, dalle divinità indiane che solcano i cieli su carri alati al grande enigma dei buchi neri. La scienza spiega, il mito viene dereligiosizzato, spogliato del potenziale irrazionale e ridotto a semplicissimo racconto di fantasia.

Non c’è nulla di male nello sperare di poter avvistare un’astronave, un alieno già tra noi, come ne “La guerra dei mondi” di Wells (magari più pacifico e meno carnivoro…). Ma deve rimanere una speranza legata alla certezza che solo la scienza, solo l’astrofisica e le altre discipline ad essa collegate potranno, un giorno, molto, molto lontano nel tempo, ben oltre le nostre brevissime esistenze, farci sapere qualcosa in più rispetto a ciò che oggi sappiamo.

Se in un secolo e mezzo siamo riusciti a passare dagli aerei di cartone ai jet supersonici, dai missili a corto raggio a quelli atomici e interplanetari, dalle missioni sulla Luna ad ipotizzare colonie umane su Marte, dalle lettere scritte a mano alle e-mail, dalle fotocopie al “copia e incolla”, allora possiamo ipotizzare che la progressività dell’evoluzione scientifica può avere un carattere esponenziale.

Ma avrà comunque sempre un limite: il futuro di una umanità che eticamente e socialmente non riesce ad evolversi e rimane avvinghiata ad un regime del profitto e delle merci che imbrigliano anche il sapere scientifico, la ricerca e tutte le sue straordinarie potenzialità. I primi confini da superare, quindi, sono ancora qui sulla Terra. E tuttavia, tenere il naso all’insù e continuare ad osservare il cielo non ci potrà che fare bene.

C’È QUALCUNO LÀ FUORI?
MARGHERITA HACK – VIVIANO DOMENICI
SPERLING E KUPFER / PICKWICK
€ 9,90

MARCO SFERINI

25 maggio 2022

foto: particolare della copertina del libro

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