L’impietosa metafora della frana dello sviluppo economico, in questo caso prettamente più turistico, che tracima sulle vite, sulle abitazioni, sulla materialità e la consistenza più cruda e feroce dell’esistenza nella sua più spietata vocazione all’antropizzazione dei territori e della natura, non può mitigare in alcun modo la tragedia di Casamicciola.
La montagna reagisce agli elementi come le è proprio: è l’essere umano che diviene l’improprietà, l’anomalia, insieme alla sua endemica e strutturale ricerca di profitto, di interesse, di speculazione sui propri simili e su tutto quello che gli capita a tiro. La montagna frana, rotola verso il mare, trascina con sé grandi e piccole rocce vulcaniche, porose, assorbenti quella magnitudo di acqua che prepotente piove e picchia sulla desolazione che di lì a poco contribuisce a generare.
La maledizione umana si sostanzia nel giro di pochi attimi: un fiume virulento di fango, detriti, alberi, macchine, autobus, rottami e tutto quanto sia sul cammino dell’onda melmosa si rovescia per le vie della località ischitana, arriva al mare e segna come un tratto di penna indelebile una ennesima ferita per una terra già scossa da terremoti e altre periodiche frane.
La storia geologica dovrebbe avere insegnato qualcosa, ma pare che ad ascoltarne la lezione siano stati sempre e soltanto gli scienziati che rimproverano giustamente alla politica e al sistema economico di divorare gli ambienti e di non agire, nella trasformazione inevitabile che segue ad una società che si evolve (e involve al tempo stesso), seguendo criteri di compatibilità tra espansione dis-umana e cura del territorio.
La logica del mercato, del profitto e della merceologizzazione di qualunque cosa però impedisce l’applicazione di una politica di vera tutela ambientale. Così le tragedie si rinverdiscono, accelerano nel loro proporsi e riproporsi durante i decenni e i secoli, acquistano una sempre maggiore frequenza e mandano chiari segnali di inadeguatezza tra le necessità della natura, la vita complessa e complessiva sul pianeta e noi, specie umana, al vertice della piramide, al comando che si siamo assegnati sul mondo e su tutti gli esseri viventi che lo abitano.
Ve ne fosse magari ancora bisogno, ma pare proprio di sì, è bene ribadire che i mutamenti climatici – come evidenziano abbondantemente geologi e ambientalisti da ogni longitudine e latitudine del pianeta – non sono un prodotto naturale, un meccanicismo che Gaia adotta secondo un processo di mutamento indipendente; sono l’effetto di una causa: e la causa è il capitalismo, la causa siamo noi animali umani.
I disastri che associamo all’ambiente, sono disastri contro l’ambiente, quindi contro casa anche nostra. Inutile lamentarsi, disperarsi e affermare, come fanno tutti i governi, nessuno escluso, che d’ora in avanti le cose cambieranno.
Segnali in questo senso non se ne sono mai veramente visti, perché la politica che amministra, la politica che dovrebbe gestire il pubblico interesse, mettere in tutela ogni bene comune, per primo la salute dei cittadini e la vivibilità di ogni centimetro del territorio, resta in parte e si fa in grande parte imbrigliare dagli interessi economici che determinano le scelte di assegnazione di enormi risorse finanziarie per le cosiddette “grandi opere“.
L’antinomia tra la grandezza delle opere e l’inversamente proporzionale scempio che si fa laddove aprono i cantieri per costruire tracciati ferroviari transfrontalieri, mettere in piedi grandi impianti di trivellazioni marine, oppure dove si preme per un’indistinta liquidazione dei nostri rifiuti mandandoli tutti quanti in cenere, in forma di diossina, nell’aria che respiriamo noi e che facciamo respirare agli altri altri esseri viventi, è così lapalissiana da non necessitare di grandi spiegazioni.
Il ponte sullo stretto di Messina, caldeggiato un po’ da tutte le forze politiche che hanno governato Sicilia e Calabria (ma pure da quasi tutti gli inquilini di Palazzo Chigi in questi ultimi decenni), sarebbe una di queste monumentali espressioni di un ingegno umano che va a mettere un ennesimo suggello di violenza ad un tratto doppio di coste, ad un canale di correnti marine preziosissime ad un ecosistema che verrebbe inevitabilmente stravolto.
L’antropizzazione del territorio è un fenomeno che attraversa l’intero corso storico, evolutivo e globalizzatore dell’umanità sull’interezza del pianeta.
Dai tempi dei tempi, dalla Roma imperiale fino ad oggi, la conquista degli spazi è andata di pari passo con l’aumento della popolazione che, però, nel secolo scorso è clamorosamente esplosa grazie ad un industrialismo che ha trasformato ogni stile di vita, che ha imposto un sempre maggiore consumo di prodotti creati con materie prime naturali e con l’utilizzo di queste per la creazione, ad esempio, dei materiali plastici.
Petrolio e metano da cui trarre carbonio e idrogeno per realizzare molte delle cose che ci sono ormai indispensabili nella vita quotidiana e che non sono presenti direttamente in natura, composti chimici di innumerevoli tipologie, sfruttamento degli idrocarburi, del sottosuolo, dei mari, delle foreste, persino dell’aria che respiriamo.
Il cosiddetto “modello di sviluppo“, di cui si tratteggia la fisionomia oggettivamente perversa, è devastante per tutta la vita sul pianeta e deve essere superato, pena anzitutto la progressiva estinzione della specie umana, unitamente a quella di tante altre specie animali come la nostra e lo stravolgimento di quel che rimane degli equilibri naturali già ampiamente alterati.
La tragedia di Casamicciola pare piccola cosa se rapportata alle “grandi” decisioni non prese dalla Cop27 tenutasi a Sharm El Sheikh poche settimane fa. Un po’ tutte le organizzazioni internazionali che si occupano dei mutamenti climatici, dell’ambiente in senso lato e della sopportabilità del sistema-pianeta al moderno liberismo globale, hanno tratto conclusioni simili nel definire fallimentare la conferenza.
Alcuni sostengono che “manca il coraggio di cambiare“. E’ una frase a metà tra la rassegnazione indotta dalla gigantografia dei problemi che sono sul tavolo delle discussioni e la tremenda corresponsione con i fatti: non c’è più tempo per parlarne. Bisogna agire.
Ma un sistema economico che fa dello sfruttamento la sua pietra angolare, il suo punto di appoggio pressoché unico e imprescindibile, perché gli è naturale, sta inscritto nel suo DNA, nel suo dover capitalizzare ogni risorsa, non può essere il promotore del cambiamento. Non può autoregolarsi neppure, perché sarebbe costretto a limitarsi nella sua “natura“, che è e rimane quella di generare profitti, sostenere il solo ambito privato come elemento strutturale di quella “crescita” di una sola parte dell’umanità a tutto svantaggio di ben più di due terzi della popolazione mondiale.
Certamente, manca anche il coraggio, da parte dei governi, di avere un piglio più deciso nei confronti dei loro finanziatori, di quelli che ne reggono le sorti politiche e che, quindi, fanno parte di un elettorato di cui non ci si può alineare i consensi. Ma, fondamentalmente, sperare che il liberismo sia riformabile è porre la propria speranza nel niente. Nell’impossibile per davvero.
Ogni soluzione di compromesso è e sarà un insuccesso. Bisogna mettere in discussione il modello capitalistico, la sua estremizzazione liberista, i dogmi del mercato e della concorrenza, dell’accumulazione dei profitti, dello sfruttamento della forza-lavoro, del rapporto con la proprietà privata dei mezzi di produzione e regolare questa secondo l’interesse esclusivamente pubblico.
Ma, siccome questa esigenza di capovolgimento del sistema richiede tempi lunghi e non la si fa dall’oggi al domani, che sono poi i tempi stretti che abbiamo per fermare la devastazione umana della casa comune, occorre anzitutto operare un cambiamento cultural-sociale: non più il consumismo all’apice del progresso, ma una decrescita che sia compensazione degli eccessi e non una sorta di ascetico riferimento ad un pauperismo un po’ cinicamente inteso.
Un consumo ragionato e, per questo, parametrato sui limiti che non possiamo più superare. Altrimenti le montagne ci franeranno addosso sempre più spesso, le acque ci si rivolteranno contro con violenti tsunami, trombe d’aria e ogni altro fenomeno che sarà diventato naturale a causa della violenza mai interrotta contro la natura stessa.
La sinistra di alternativa deve essere tale abbracciando una lotta che metta in discussione radicalmente, senza se e senza ma, tutto l’impianto antropocentrista e specista che fino ad oggi non si è voluto mettere sotto la lente critica di un comunismo nuovo, di una prospettiva di cambiamento sociale che riguardi tutta la vita sulla Terra. Non solo la liberazione e la salvezza per noi animali umani, ma la liberazione e una nuova vita per l’interezza del “villaggio globale” nella sua straordinaria molteplice, e unica al tempo stesso, continua trasformazione.
MARCO SFERINI
27 novembre 2022
Foto di Ria Sopala da Pixabay