Carter, un presidente senza più eredi

È morto all’età di 100 anni Jimmy Carter. Un solo mandato alla Casa Bianca e tra i capi di Stato Usa il più sottovalutato, ma con straordinari successi di una vita centenaria per il bene comune

È morto all’età di 100 anni Jimmy Carter, presidente degli Stati Uniti tra il 1977 e il 1981. Se nell’aldilà esistesse un Empireo riservato agli statisti operatori di pace, sarebbe quasi vuoto. Vi si troverebbe, al massimo, Gandhi con Nehru, Olaf Palme e Willy Brandt, Yitzhak Rabin e Yasser Arafat, Mandela, Luther King e Michail Gorbaciov.

Il guardiano dell’Empireo, però, non può negare l’accesso a un altro premio Nobel, Jimmy Carter, giunto al traguardo di una vita centenaria. Gli elettori – che in democrazia hanno sempre ragione anche quando hanno torto – gli negarono un secondo mandato; ma a lui ne era bastato uno solo per realizzare un albo d’oro di primati. Se è vero, come scriveva Shakespeare, che «il male compiuto dagli uomini si prolunga oltre la vita mentre il bene è spesso sepolto con le loro ossa», dobbiamo evitare che questo accada con Carter.

Riesumiamo dunque i suoi primati: gli accordi di pace di Camp David tra Egitto e Israele; riapertura delle relazioni diplomatiche con Cuba; blocco degli esperimenti sulla Bomba N (al neutrone); firma del trattato Salt II con l’Urss per limitare le armi strategiche; restituzione a Panama della sovranità sul Canale; storica visita a Washington di Deng Xiaoping; riforma dell’immigrazione con regole più umanitarie; nomina di afro-americani negli alti ranghi della giustizia federale, in un sistema piagato dal razzismo; raddoppio dei parchi nazionali; finanziamenti alla ricerca sull’energia solare (primo presidente a parlare di cambi climatici e a montare pannelli solari alla Casa Bianca). Ovviamente ognuno di questi provvedimenti gli procurò acerrime inimicizie.

Fa impressione rileggere il discorso profetico pronunciato il 15 luglio 1979, dopo essersi isolato nella clausura di Camp David a riflettere. La sua fede battista l’aveva spronato a un profondo esame di coscienza: «Aleggiano attorno a noi i sintomi di una crisi dello spirito americano – disse a un popolo sordo d’orecchio -. Troppi di noi venerano il consumismo. Ci identifichiamo con ciò che possediamo e non con ciò che facciamo; ma accumulare beni materiali non può riempire il vuoto di una vita priva di scopo».

Infine l’affondo: «Credevamo che la nostra fosse una nazione del voto, non delle pallottole (ballot, not bullet), finché non furono uccisi i fratelli Kennedy e Luther King. Ci avevano insegnato che i nostri eserciti erano invincibili e le nostre cause giuste, finché non subimmo l’agonia del Vietnam. La Presidenza era rispettata come una carica onorevole, finché non subimmo il trauma del Watergate».

Di lui si citano spesso gli accordi di Camp David, ma si dimenticano i suoi sforzi per frenare l’insediamento di coloni ebrei in Cisgiordania. Il 13 giugno 1980 un Consiglio Europeo riunito a Venezia approvò la Dichiarazione per il riconoscimento di uno Stato palestinese. Dieci giorni dopo, sbarcato a Venezia per il G7, Carter sostenne convintamente quel documento, pubblicando tra l’altro un libro in cui appariva fin nel titolo la parola proibita: apartheid (“Palestine: Peace not Apartheid”).

Lavorando nella delegazione italiana al G7, mi resta il ricordo del suo sconcerto nel vedere Schmidt, Giscard e Thatcher spostarsi su eleganti motoscafi Riva, mentre a lui era toccato – per risibili motivi di sicurezza – un natante pilotato da un marine che mancò pure la manovra d’attracco all’isola di San Giorgio. Arrivato troppo veloce, il marine innestò la marcia indietro, poi avanti e poi di nuovo indietro, avvolgendo di fumo mefitico il presidente tra le risatine dei timonieri veneziani.

Ma una ben più ardita manovra gli era stata fatale in aprile: quella di liberare gli ostaggi americani segregati nella loro ambasciata a Teheran. Si stava consumando il dramma che segnerà la fine del suo mandato. Ci si dimentica, però, che gli studenti iraniani assalirono l’ambasciata solo quando seppero che i “falchi” di Washington avevano deciso di ospitare lo Scià malato contro il parere personale di Carter, convinto che accogliere lo Scià in quel clima incandescente avrebbe infiammato le folle in Iran. E così fu.

Peggio: si scoprì in seguito che – mentre gli algerini mediavano per il rilascio degli ostaggi – il capo della campagna di Reagan, Bill Casey, si incontrava in segreto a Madrid con emissari di Khomeini per spingerli a tirare in lungo la crisi fin dopo le elezioni Usa a novembre. Fu così che un attore di seconda categoria ottenne in dono dagli ayatollah la vittoria (Reagan conquistò 44 dei 50 Stati dell’Unione) contro un presidente in carica che agli elettori si era sempre rivolto con questa promessa, quasi un mantra: «Non vi mentirò mai».

Nel 1981 si apriva con Reagan l’era del turbo-capitalismo, all’insegna di un ben altro mantra, rinnovato ora da Trump: «Il governo non è la soluzione, il governo è il problema». La cocente sconfitta lasciò Carter depresso, finché non intuì qual era la sua nuova missione: fondare un Carter Center. Da 40 anni quel benemerito istituto si dedica a finanziare programmi sanitari in Paesi bisognosi e a mediare conflitti locali dovunque richiesto.

Con pari dedizione Carter si batté nel 2003 contro l’aggressione all’Iraq: «Quale cristiano e presidente coinvolto in varie crisi, ho una certa familiarità con i principi di guerra giusta. Per esser tale, una guerra deve osservare criteri ben definiti. Primo, va iniziata solo come extrema ratio. Secondo, le armi devono distinguere i combattenti dai civili. Terzo, la violenza va proporzionata alle offese subite.

Quarto, l’attacco va legittimato dal Consiglio di Sicurezza. Ora la nostra statura nel mondo è compromessa e non potrà che declinare ancora, se agiremo in contrasto con l’Onu». È esattamente ciò che si sta verificando nella temperie attuale. Questa sua lucidità non è mai venuta meno. Alla vigilia delle ultime elezioni Carter pregava il buon dio di consentirgli di votare una volta ancora. Gli fu concesso, anche se dio non è stato abbastanza buono da far vincere la sua candidata.

GIUSEPPE CACCINI
Ex ambasciatore

da il manifesto.it

foto: screenshot

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Vite del passato

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