I punti di vista, molto più oggi rispetto all’anche recentissimo passato, sono terreno predatorio di una nuova logica della massificazione delle opinioni riflessa da una intermediazione delle reti fintamente sociali internettiane. Il filtro ipocritamente finto della mediazione culturale operata da queste nuove forche caudine della disinformazione e della traslitterazione dei pensieri veri e propri di ognuno di noi, è niente più e niente meno se non uno specchietto per le allodole, una ipotizzazione di regole che dovrebbero mettere un freno agli eccessi.
Eccessi di linguaggio che si allenano e si induriscono muscolarmente nella palestra dell’odio a buon mercato, distribuito a piene mani dal battere delle dita sulle tastiere dei computer o sugli schermi dei tablet e dei telefonini, veri e propri moloch moderni di una alterazione strutturale della parola che diventa clava, stiletto appuntito e lancia d’odio indiscriminato. C’è una rabbia di fondo che crea tutti i presupposti per l’essere sempre avversi rispetto all’interlocutore o, per meglio dire, al competitor dall’altra parte del monitor.
Ogni argomentazione è figlia di un tuttologismo che ormai è la contraddistinzione evidente della neostupidità umana del XXI secolo. Lo esige proprio questa generalizzazione della (dis)informazione che si affida al superficialismo del sentito dire e del meme ossessivamente rilanciato, pagina per pagina, post per post e che, ripetitivamente, assume i connotati di una goebbelsiana verità indotta e condotta per mano da qualcosa di più di un comune sentire e da qualcosa di molto lontano da quell'”intellettuale collettivo” di gramsciana memoria. Semmai si può fare qualche vago cenno ad un inconscio di massa che, tuttavia, pare sempre più atomizzato da esperienze particolari.
Ognuno di noi sta sui social non come vive nella realtà, oltre lo schermo, al di qua dei pixels. Il nostro agitarci permanentemente per affermare l’opinione che sentiamo di dover avere su tutto e su tutti è una esasperazione edonistica indotta da questa onnipresenza, acca ventiquattro (si direbbe e si dice oggi…), su porte aperte su una virtualità che finisce col condizionare molto di più il reale di quanto non lo facciano le azioni concrete o, per meglio dire, i fatti. Una sorta di abitudinarietà alla crudeltà quotidiana, alle guerre, alle stragi, alla sofferenza in quanto tale è la conseguenza di una ridondanza di concetti che fanno sembrare tutto uguale.
I media di oggi dovrebbero mostrarci l’orrorificio in cui il mondo si è venuto involvendo nel moderno capitalismo liberista: sessanta, settanta o forse anche ottanta sono i conflitti armati in cui muoiono ogni giorni decine, centinaia di esseri umani. Per non parlare poi della mattanza nel mondo propriamente inteso (specisticamente) come “animale“. Noi siamo i carnefici di noi stessi e di altre specie che ci sono afferenti, ma da cui ci distinguiamo così come facciamo con i nostri simili per via del colore della pelle, del credo religioso, della provenienza etnica, delle tradizioni secolari.
E questa crudeltà la sussumiamo in una esistenza più complessiva in cui ci sembra sempre più consuetudinario il fatto che esistano delle contraddizioni talmente enormi e titaniche da esserne impossibile l’eliminazione con il singolo atto, gesto o comportamento che sia rivolto alla partecipazione e alla formazione di un qualcosa di più dell’individualità in quanto tale. Non è poi così lontano dal vero il fatto che, visto l’accumulo di problematiche, come nel caso del disastro ambientale, del cambiamento climatico e della sovversione dei princìpi climatici che consentono l’esistenza della vita sulla Terra, anche la più genuina buona volontà si destinata a rimanere purtroppo tale.
Sappiamo, quindi, ancora provare sdegno per la propensione autoannichilente che si esprime con l’imperialismo moderno nel multipolarismo competitivo tra ovest ed est, tra Occidente ed Oriente, tra asse nordatlantico e altre potenze emergenti? Oppure siamo, in qualche modo, costretti dalla megalomane diffusione delle false notizie e della genesi dei fini voluta dalle politiche delle destre, che si saldano sempre di più sul piano internazionale, a digerire prodotti di scarto del vuoto pneumatico mentale del conservatorismo retrivo italico ed euro-statunitense senza battere ciglio?
Alessandro Dal Lago scriveva nel 2012 un saggio molto accurato proprio sul rapporto tra violenza e diffusione mediatica di massa della stessa; dell’attenzione spasmodica verso il truce e il crudele ma non in eguale misura: la patologica morbosità nei confronti della cronaca nera suscita molto più ascolto televisivo rispetto alle dinamiche complicate delle guerre che, per qualche settimana, occupano gli speciali dei dibattiti e degli approfondimenti, per poi scemare in un declivio di consuetudinarietà. C’è la guerra in Ucraina, si trascina da tre anni e non fa più notizia. Continuano a morire civili e militari. Ma non fa più notizia.
C’è la guerra a Gaza: pare scoppiare d’un tratto, dopo la criminale azione di Hamas contro i kibbutz e un rave party nel deserto ai bordi della Striscia. La questione tiene banco per un po’ di tempo: escono libri istantanei che ricostruiscono sommariamente la vera, grande complessità del gramma palestinese entro i confini apartheidici di Israele; se ne discute magari anche al bar. Poi la guerra prosegue, le città sono rese cumuli di macerie. I morti sono decine e decine di migliaia. Quando si legge o si ascolta di un attacco di Tsahal contro un ospedale, ci si indigna giusto quel tanto per sentirsi ancora un po’ umani. E poi si passa ad altro.
Del resto, la narrazione che ci è propria è un autoconvincimento che ci viene propinato in ogni occasione in cui è utile ribadire che l’Occidente è democratico, che questa parte del mondo in cui viviamo è quella dai sani, giusti princìpi liberali, eredi dei Lumi, della Rivoluzione francese, della messa da parte di un assolutismo che, invece, in molte altre zone del pianeta ancora regna nelle forme disomogenee e variabili delle petrolmonarchie del Golfo Persico o dei regimi teocratici di varia colorazione e religione.
La lettura di “Carnefici e spettatori. La nostra indifferenza verso la crudeltà” (Raffaello Cortina Editore, 2012) risulta ancora oggi profondamente calata nella apocalittica complessità antisociale e anticivile (a volte anche incivile) di un sistema proprietario delle menti e dei corpi che si ispira, per certi versi, al patriarcalismo d’antan e per altri ad una traduzione ipermoderna del colonialismo otto-novecentesco che riguarda anche l’espansione imperialista, economica e militare per intenderci, ma che concerne pure una dimensione distopica in cui far sopravvivere miliardi di persone. Il tutto si riduce al tentativo di far credere che, nonostante tutto, alternative non ve ne siano.
Dunque, pure la violenza, la crudeltà, l’odio, lo scontro tra clan come tra popoli istigati dai governi che rispondono alle centrali del capitale, è vissuta come inalterabile, inespugnabile costrutto strutturale con cui si governano i processi di stabilizzazione della felicità di una sempre più esigua parte del mondo a discapito tutto il resto, ossia della maggioranza del pianeta e delle nazioni. Se è vero che le guerre prescindono anche dalle nostre singole volontà e che, quindi, possiamo fare ben poco presi uno per uno, è altrettanto vero che una sensibilità cosciente e critica, non compromessa da un predestinismo autoassolutorio, sarebbe un punto guadagnato alla causa dell’empatia scomparsa.
O, per meglio dire, in fase di estinzione. Non siamo tutti carnefici e non siamo tutti spettatori delle medesime. Ma non c’è nessun dubbio sul fatto che la percentuale di coloro che si siedono davanti al computer e risolvono le questioni esistenziali al di fuori dei libri è aumentate. Un analfabetismo di ritorno imponente, davvero intriso di un accecante gorgoglio baroccheggiante, fatto di presunzione che, proprio nel vomitatoio dei social si esprime in tutta la su repressa, evidente ignoranza. La lontananza dalla concatenazione dei fatti, dal tenere conto della molteplicità dei fini che convergono e divergono, è anzitutto il presupposto per poter essere dei tuttologi moderni.
Meno si conosce e più si può dire. E più si può dire, più ancora si può pretendere di affermare con quella sicumera tronfia che aleggia e serpeggia nei profili di chi ha perso qualunque scampolo di umiltà. Insegnava Carmelo Bene che ogni tuttologia “è cazzata“, in sé e per sé. Non perché sia impossibile pretendere di tendere all’onniscientismo o, se non altro, aspirare ad una espressione sempre più ampia del diritto di avere il diritto di dire la propria su quel che si vuole. Semmai perché siamo vissuti più che viventi. Ci facciamo attraversare da mille condizionamenti e perdiamo di vista la realtà.
Proprio come perdiamo di vista l’orrore delle guerre, la devastazione delle terre, dei mari, dell’aere e non ci proiettiamo nemmeno più nel mistero dell’Universo per recuperare un pochino di microsenso delle nostre esistenze qui, al di sotto del cielo sopra di noi. Dalla ragione pura, criticata per un apriorismo che non le può appartenere, alla sragione pura che invece vive di tutto questo ed è onnivoramente cannibale: si nutre di apparenze e di pregiudizi, di preconcetti e di superficialismi che sono necessari a nascondere le vere irragionevolezze dei tanti carnefici che sono intorno a noi.
Se diventiamo spettatori di questa fluida società del disinteresse, dell’egogimo auto prodotto all’ottimo prezzo della svendita delle coscienze e dell’empatia, ci riduciamo ad un ruolo di comprimarietà nei confronti dei veri direttori d’orchestra che suonano la musica della condiscendenza verso la conservazione dei privilegi e negano qualunque possibilità di progressismo, di concretizzazione dei diritti oltre che dei doveri. Alessandro Dal Lago fa anche una piccola storia della crudeltà, delle carneficine, dell’orrore umano compreso nell’umanità e non respinto semplicemente per istinto.
Neppure questo ci assolverebbe. Dobbiamo avere coscienza della crudeltà provando una avversione che non sia semplicemente affidata all’emotività. L’empatia che si deve provare nei confronti della sofferenza umana (e animale, oltre che naturale nel suo complesso) ha una ragione d’essere se è consapevolezza dettata dall’uscita dal consueto, dall’abitudine secolare e millenaria alle tradizioni vessatorie di un potere che ha distrutto le esistenze di miliardi di esseri viventi per culto, per cultura, per moralità, per interesse, per profitto, per cinico adattamento all’andazzo della maggioranza.
La coralità è necessaria. Ma un coro è fatto di voci singole disposte armonicamente perché possano regalare una musica udibile ed emozionante. Una sola voce, anche composta da molte, non ha un effetto corroborantemente progressista se non regala un messaggio completamente differente dai suonatori e dai menestrelli del misero, crudele spettacolo dell’oggi e, purtroppo, anche di domani.
CARNEFICI E SPETTATORI
LA NOSTRA INDIFFERENZA VERSO LA CRUDELTA’
ALESSANDRO DAL LAGO
RAFFAELLO CORTINA EDITORE, 2012
€ 13,50
MARCO SFERINI
12 febbraio 2025
Foto di Polina Tankilevitch
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