Tutto il mondo della politica di palazzo si sta allontanando da noi comunisti. Lo reputo positivo perché tornano a rimarcarsi le necessarie e oggettive differenze tra chi esprime una critica “senza se e senza ma” nei confronti del capitalismo in cui viviamo e chi lo vuole più impetuoso nei suoi effetti quotidiani sulla pelle di milioni di povera gente; chi lo vuole governare e chi vuole farsi governare da esso; chi lo vorrebbe “temperare” e limitarne gli eccessi.
Ciò è, dunque, positivo: guardiamoci dal confonderci ancora una volta con riformisti pseudo-socialisteggianti.
Poi, però, c’è tutto un altro mondo, quello del lavoro e della precarietà, dei pensionati e dei disoccupati, di chi vive nell’indigenza più nera, che si è allontanato da noi proprio perché noi ci eravamo, forse anche in buona fede, allontanato da lui per cercare di diventare un po’ pragmatici e assumere praticamente le fattezze di un riformismo che ci ha snaturato e ci ha cambiato radicalmente in più di un decennio.
Ciò, ovviamente, è negativo e qui dobbiamo intervenire nel ristabilire una connessione sociale, culturale, emotiva, sensibile quindi, tangibile nel suo essere eterea, impalpabile.
Dobbiamo ricostruire un “senso comune” di appartenenza di classe ad un movimento politico di classe.
A molti sapientoni della politica “senza ideologie” ed esegeti moderni suoneranno come parole storte, distorte, contorte, fuori tempo, anacronistiche per l’appunto.
Qui torniamo al primo concetto: se così suonano alle orecchie di costoro, vuol dire che anche in questo caso ci stiamo riprendendo la nostra identità, la nostra autonomia, la nostra indipendenza di giudizi non più schiava di compromessi da mettere in campo per salvare l’Italia dal condottiero che, di volta in volta, vorrebbe autoritariamente guidarla.
Ci sono tanti baldi cavalieri che la vogliono salvare nel nome proprio e in quello del liberismo moderno.
Mettersi dietro questa gente vuol dire tradire ancora una volta la gente che invece dobbiamo tornare a rappresentare e per cui essere un punto di riferimento “naturale”.
I dieci punti elencati nel documento della Direzione nazionale di Rifondazione Comunista del 7 ottobre scorso mi sembrano un prologo buono, un programma minimo cui affidarsi per costruire una nuova soggettività anticapitalista, comunista e rivoluzionaria.
Basta parlare con le parole degli altri. Riprendiamoci le nostre, che sono il linguaggio della verità oggettiva dei rapporti di forza tra le classi che tanti soloni sostengono inesistenti, ma poi davanti ai lavoratori in lotta o ai morti giornalieri nelle fabbriche e nei cantieri sanno solo chinare il capo e dire banalmente: “Facciamo in modo che non accada più”. Loro, che ne sono i primi mandanti politici.
Non vediamo tutte e tutti come amici o possibili interlocutori. Come diceva Edoardo Sanguineti: restauriamo l’odio di classe. Se per ricomporre la galassia comunista servisse forzare anche sui nostri sentimenti e sulle nostre simpatie, facciamolo. Non conta ciò che proviamo. Conta ciò che siamo disposti a fare per una idea di società cui tanti di noi hanno dedicato la vita.
(m.s.)
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