Riconoscendo la presidenza di Juan Guaidó in Venezuela e riservandogli i proventi del petrolio venezuelano negli Usa, Donald Trump ha messo in moto una spirale di violenza e caos di dimensioni drammatiche che potrebbe avere inizio in Venezuela in tempi brevi. L’appoggio a questa strategia di strangolamento del governo bolivariano da una serie di paesi dell’Ue – oltre che da quelli latinoamericani del Gruppo di Lima- non fa che accelerare i tempi.
Secondo le stime dell’Amministrazione Usa le sanzioni statunitensi costeranno all’economia venezuelana 11 miliardi di dollari, più del 90% della spese attuate lo scorso anno dal governo bolivariano per importare prodotti essenziali per il paese. Le sanzioni europee accresceranno lo strangolamento e – tenendo conto che simili sanzioni internazionali l’anno scorso hanno prodotto una perdita di circa 20 miliardi di dollari per il governo bolivariano – potranno produrre una catastrofe economica e umanitaria senza precedenti in America latina.
Obiettivo principale di tale strategia sono le Forze armate bolivariane che – a causa della politica di ingerenza di Trump e Ue – sono diventate l’asse politico del Venezuela. Il ricatto che viene posto al vertice militare venezuelano è semplice e drammatico: o abbandona il presidente costituzionale Maduro o il paese dovrà affrontare una catastrofe economica. In sostanza, o vi sarà un «cambio di regime» o la morte per fame.
Per gli «alti gradi» che dovessero accettare il ricatto è stata offerta «una esenzione dalle sanzioni». Come è stato già proclamato dai governi Usa in occasione di precedenti e catastrofici interventi in Afghanistan, Iraq, libia e Siria, anche l’Amministrazione Trump afferma che la crisi innescata dalla sua politica di ingerenza o di intervento diretto avrà una soluzione rapida che beneficerà tutti i «buoni»: Maduro sarà costretto ad andarsene, la democrazia sarà «ristabilita» e le grandi riserve di petrolio del paese saranno di nuovo sotto controllo delle multinazionali (come ha messo in chiaro il consigliere per la Sicurezza nazionale Usa, John Bolton).
Anche in questo caso i falchi di Trump stanno drammaticamente sottostimando i rischi supponendo che i militari («corrotti») venezuelani siano disposti a voltar gabbana e soprattutto che lo facciano in modo ordinato e disciplinato, senza dividersi e dar inizio a una guerra civile; che il governo Maduro non abbia una base di appoggio popolare; che gli alleati del Venezuela come Russia, Cuba e – seppur più pragmaticamente – Cina, non abbiamo la volontà o l’interesse per appoggiare il governo bolivariano. La storia recente ha dimostrato che la politica di government changing degli Usa è stata quantomeno inefficiente e spesso criminale. In Iraq, Libia e Siria ha provocato una serie infinita di sanguinosi conflitti armati interni.
In Afganistan, dopo aver guidato un intervento armato durato 18 anni a capo di una coalizione internazionale contro i «terroristi talebani», oggi gli Usa stanno trattando un accordo di pace con i medesimi talebani. Non si capisce quali siano le garanzie che in Venezuela le cose saranno differenti. E che non vi sarà una destabilizzazione che si estenderà a tutto il subcontinente.
Né si comprende come tanti governi europei appoggino questa avventura. Soprattutto perché Guaidó e gli Usa non stanno attuando una politica per giungere a una riconciliazione nazionale in Venezuela , ma rifiutano la via del dialogo e come unica soluzione pretendono «la fine dell’usurpazione del potere da parte di Maduro». Il loro obiettivo è prendere tutto.
Una strategia alternativa è necessaria: quella delle trattative per una soluzione pacifica con una mediazione internazionale offerta da Messico, Uruguay, Onu e Vaticano. Una iniziativa che è stata esaminata dal Gruppo internazionale di contatto che si è riunito ieri a Montevideo nella Conferenza per propiziare un dialogo.
È una via, quella delle trattative, che Maduro nei giorni scorsi ha detto essere disposto a percorrere, proponendo anche elezioni parlamentari anticipate sotto controllo internazionale.
Il presidente venezuelano non si è dimostrato all’altezza del suo predecessore Chávez. La sua politica può, e in buona misura deve, essere messa in discussione. Ma rimane il presidente costituzionale, se vi è ancora un diritto internazionale.
Ed è questo il secondo punto in gioco che fa pendere la bilancia verso il pessimismo. Avendo come obiettivo dichiarato il cambio di un governo eletto, l’Amministrazione Trump ha convertito una crisi regionale in una lotta di potenze mondiali. Il petrolio non è la sola, e forse nemmeno la maggiore ragione. Come accade in molti conflitti di potere, il Venezuela è il bottino di un premio più grande. Per Trump rappresenta la possibilità di riprendere il controllo di tutto il subcontinente latinoamericano dopo quindici anni di «marea rosa» – ovvero di governi progressisti, più o meno radicali ,in molti stati latinoamericani che hanno messo in causa il dominio degli Usa-, di marginalizzare l’influenza della Russia e, soprattutto, di arrestare l’espansione della Cina.
La settimana scorsa The Wall Street Journal ha informato che da tempo alti funzionari dell’Amministrazione Usa hanno due obiettivi principali: bloccare l’avanzata della Cina e tenere sotto scacco Cuba. Abbattere il governo bolivariano in Venezuela permetterebbe ai falchi di Trump di ottenere entrambi gli obiettivi. Ma devono farlo in fretta. Ogni giorno che Maduro conserva il potere dà alla Russia e alla Cina la possibilità di cercare un risultato che permetta loro di non restare tagliati fuori dal Venezuela. Per questo la Casa bianca e il loro uomo a Caracas sono decisi a recitare il de profundis a ogni forma di trattativa.
ROBERTO LIVI
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