I canti sono bandiere, sono inni corali che i popoli si trasmettono di generazione in generazione, al pari delle canzoni, degli stornelli, dei racconti e delle tradizioni orali.
La musica ne permette la perpetuazione, veicola la storia di un paese, la ripropone alle generazioni che vengono e che verranno e, a volte, riesce a farlo innovando quella memoria, ringiovanendola con adattamenti melodici che rallentano l’invecchiamento dei fatti, il loro essere semplicemente consegnati alla Storia ed allo studio, pur molto importante, che viene trattato nelle aule scolastiche.
Nel ricordare la sua giovinezza nella Rimini degli anni ’30 del Novecento, Fellini fa echeggiare l’Internazionale dal grammofono che sfida la prepotenza fascista, la festa del Natale di Roma con tutte le sue anfitrioniche celebrazioni. Per qualche momento, nell’oscurità della notte, l’ombra della rivolta viaggia sulle note del canto composto da De Geyter. E’ lo spettro del comunismo, dell’anarchismo, della ribellione che viene ascoltata, condivisa, ma che il regime reprime con sorsate di olio di ricino, intimidazioni e botte.
Pare proprio dire questo quel suono di violino che viene dalla puntina che legge il disco: “Cantalo forte“. Esattamente il titolo di una interessantissima raccolta di canti sociali, del lavoro e partigiani che Gioacchino Lanotte ha messo insieme (edizioni Stampa alternativa, 2006), commentandoli con cura, per parlarci della Resistenza che era unità di popolo, sentimento, passione e voglia di normalità. La musica ne faceva parte, perché era la vita stessa ad essere al centro dell’azione antifascista.
A dispetto del totalitarismo criminale e mortifero fascista, la Resistenza è voglia di ribaltare non solo politicamente, ma prima di tutto socialmente, tutto quello che il regime di Mussolini ha rappresentato, anche culturalmente e musicalmente parlando. Dalla rinuncia monarchica a sbarrare le porte alla marcia su Roma, il regime per negativa antonomasia non ha lasciato intatta nessuna realtà civile, sociale, nessun pezzetto di quotidianità degli italiani dal controllo ossessivo e continuo, per assicurarsi un consolidamento strutturale senza alcuna falla.
La fascistizzazione dello Stato è fascistizzazione dell’esistenza di ciascuno e nulla sfugge alla novità di un potere assoluto che finge un patetico paternalismo, che si mostra accondiscendente e vicino alla popolazione che opprime e verso la quale la vessazione è la norma inderogabile laddove si accennino critiche, tentativi di organizzazione di un dissenso che Mussolini e i suoi gerarchi non possono in alcun modo tollerare.
La musica, le canzoni, le rime diventano un’arma imprendibile, perché si perdono nell’aria, perché si diffondono senza che nessun manganello le possa torturare, senza che nessuna galera le possa rinchiudere.
Quando Giacomo Matteotti viene brutalmente assassinato, e mentre il duce dichiara alla Camera di assumersi la responsabilità di quel delitto, proprio mentre il fascismo dei primi tempi attraversa quella che è certamente la sua più grande crisi prima di quelle in tempo di guerra, la storia del sacrificio estremo del deputato socialista diventa già memoria del presente proprio nella cronaca che ne fanno i canti popolari:
«…canto il delitto di quei galeotti / che con gran rabbia vollero trucidare / il deputato Giacomo Matteotti.
Erano tanti: Viola Rossi e Dumin, il capo della banda Benito Mussolin...».
La “Canta” qui citata prosegue veramente con una dovizia di particolari che impressiona, perché fa un resoconto preciso, meticoloso, davvero descrittivo di come si sono svolti i fatti, di come le squadracce del duce hanno provveduto a far fuori una delle voci più critiche in Parlamento nei confronti del fascismo picchiatore, incendiario e antiliberale che stava scalando i vertici dello Stato, che stava impadronendosi del potere con l’accondiscendenza acritica del sovrano e il favore dell’industrialismo del Nord.
Così comincia la storia della Resistenza italiana al fascismo cantata dalle voci spesso anonime di un popolo che vi si raccoglie intorno. La musica e le parole sono due preziosi strumenti catartici: aiutano a sostenere il peso dei tempi, a non farsi travolgere dagli eventi, a mantenere quello spirito critico che è essenziale a molti per non far naufragare la coscienza nel fiume in piena di consensi che il PNF raccoglie e invoglia a suon di ricatti, intimidazioni e violenze di ogni tipo.
Mentre il regime si consolida, la cultura antifascista rimane viva ma deve nascondersi, non può uscire allo scoperto. L’organizzazione migliore rimasta in campo è quella del Partito Comunista d’Italia: nonostante la messa fuori legge di tutte le forze politiche e sindacali, socialisti, popolari e comunisti, e così repubblicani, azionisti e liberali, non demordono e continuano altrove le loro lotte.
I tempi non sono maturi per poter tentare un rovesciamento del fascismo. Toccherà aspettare che un evento traumatico come la guerra di aggressione, prevista da Gramsci nelle sue dichiarazioni al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, trascini all’inferno il duce e i suoi sgherri, ma dopo vent’anni di tirannia.
Gli scritti clandestini girano nelle fabbriche, ma con grande cautela. I fogli di informazione e di propaganda dei partiti vengono distribuiti per far sopravvivere quell’insofferenza che non può trovare sfogo, che deve attendere tempi, modi e nuove forme per una lotta che in quell’Europa degli anni ’30 è sconfitta da Roma a Berlino passando per la sanguinosa guerra civile spagnola.
Per mostrare al Paese e alla gente che nulla è immutabile e che tutto può cambiare, vengono prese le più famose canzoni fasciste, ne viene sostituito il testo e le si canta sbeffeggiando i presuntuosi pilastri culturali che Mussolini vorrebbe dare alle giovani generazioni: dai figli della lupa agli avanguardisti, dalle piccole italiane alla Gioventù del Littorio.
Così, “Vincere! Vincere! Vincere!” diventa…: «Fascisti vigliacchi e assassini / L’Italia leggiadra sfiorì / Voi e il truce ladron Mussolini / L’avete straziata così…».
E “Giovinezza“, che risuona in ogni piazza di ogni città dagli altoparlanti della Radiomarelli, inno della futurbibilità del fascismo, del suo proiettarsi verso il nuovo millennio sulle spalle e la gambe delle ragazze e dei ragazzi che diventano l’emblema della rigenerazione della patria, dopo l’umiliazione della “vittoria mutilata” e la debolezza della democrazia liberale e parlamentare giolittiana, viene cambiata resistentemente in “Giovinezza, pe’ ‘ntal cù“.
Per tutti gli anni di consolidamento del regime mussoliniano, le canzoni antifasciste e ribelli si moltiplicano, diventano una vera e proprio controcultura popolare: una alternativa alla vulgata di massa, alla mancanza di libertà di espressione, di scrittura, di critica e dialettica.
L’asfissiante indottrinamento è tradotto ogni giorno nella piaggeria dei funzionari dello Stato, dei giornalisti e degli scrittori e di un mondo scolastico e universitario che, a parte poche eccezioni, si uniforma ai dettami di Mussolini e Starace. Le veline del MinCulPop viaggiano da telescrivente a telescrivente, istruiscono su come ci si debba comportare e su ciò che sia o non sia permesso tanto nei rapporti interpersonali quanto in quelli delle cerimonie più propriamente istituzionali.
Il canto popolare riesce a sottrarsi a questo controllo quotidiano. Diviene un veicolo veramente primordiale per una voglia di resistenza che cresce ogni anno che passa: le vittorie stentate in Africa contro i soldati del negus Hailé Selassié, a suon di gas asfissianti e armi chimiche da sterminio di massa, non lasciano presagire nulla di buono. Per qualche tempo il regime sembra invincibile, come si mostra il suo omologo germanico e, in maniera meno evidente per recuperare i danni della guerra appena trascorsa, il falangismo di Francisco Franco.
Sono tempi duri, quelli in cui Hitler dichiara che Mussolini è il suo maestro e che, senza l’avvento del fascismo in Italia, nemmeno in Germania si sarebbe potuto dare un volto nazista al movimento völkisch.
I canti resistenti, a questo punto, hanno bisogno di un passaggio ulteriore, di una trasformazione necessaria: da pratica ironica diventano patriottici, rivendicando una nuova Italia, un nuovo Paese, una nuova società e vita negata per troppo tempo dal fascismo. I canti si dividono in civili e militari, a seconda che vengano composti con accompagnamenti di chitarra dagli studenti e dai borgatari delle città o dai primi partigiani che immaginano le conseguenze del “Patto d’acciaio“.
La guerra è nuovamente alle porte. Travolgerà Hitler, Mussolini e i loro totalitarismi omicidi. Ma trascinerà nel baratro tutto il mondo. Eppure, nonostante tutto, alla fine sarà sempre una canzone a portare una speranza di rinascita per una Italia ridotta in macerie, violentata per decenni nella sua più bella natura libertaria. “Bella ciao” ieri ed oggi, per ricordare, per attualizzare sempre quelle passioni, quei valori e quel coraggio di popolo che restituirono al Paese la voglia di ritornare a vivere, senza paura, senza botte, senza così tanta gratuita morte…
CANTALO FORTE. LA RESISTENZA RACCONTATA DALLE CANZONI
GIOACCHINO LANOTTE
EDIZIONI STAMPA ALTERNATIVA
€ 13,00
MARCO SFERINI
17 agosto 2022
foto: particolare della copertina del libro