Canne al vento

Là sulla costa tirrenica della Sardegna guarda al mondo che le si prospetta innanzi una giovane ragazza. La sua fuga dalla benestante famiglia nuorese è un volo pindarico, un...

Là sulla costa tirrenica della Sardegna guarda al mondo che le si prospetta innanzi una giovane ragazza. La sua fuga dalla benestante famiglia nuorese è un volo pindarico, un salto nel buio, nonostante cerchi una luce tra il grigiore dell’austera casa, tra i canneti e le campagne, tra le colline e le montagne vere e proprie. Davanti ha il mare che è già un sinonimo di libertà, dell’aprirsi all’esternità: promessa metaforizzata, agognata meta per una vita nuova.

La ragazza esce dal confine isolano, si sposa, ha un figlio. Le sue altre tre sorelle, invece, rimangono nel borgo natio e, dopo la morte del padre, lo splendore della famiglia si opacizza, diventa sempre più un ricordo di un tempo trascorso; il tutto affidato ad una sorta di leggenda psicologica che guarda, con acume introspettivo, dentro l’animo delle figure che si stagliano sul fondo e in prima battuta escono, a poco a poco, dalle pagine del capolavoro di Grazia Deledda: “Canne al vento” (BUR grandi classici, 2008).

Il romanzo è un capolavoro descrittivo che si muove su una divergenza di piani narrativi che si completano vicendevolmente: vi è il lirismo tipico di un verismo (tuttavia molto differente da quello di Giovanni Verga) che si attarda sui particolari del paesaggio esterno così come della descrizione degli interni in cui sono ambientati i travagliati rapporti personali ed anche sociali del canovaccio narrativo; e vi si trova anche la più semplice, ma non meno affascinante, forma dialogica che costringe persino l’autrice a fare i conti con il vecchio e il nuovo.

Delle tradizioni, certo, dei costumi, ma, inevitabilmente, anche del liguaggio: diversamente dal siciliano, il sardo con estrema difficoltà si può inserire compiutamente nella discorsività dell’italiano e, per questo, era stata cura prima della scrittrice porre delle note e margine dei fogli perché anche nella pubblicazione a puntate sui giornali isolani prima, e in forma di libro poi, fosse possibile per ogni lettrice e ogni lettore avere contezza dell’esatta traduzione (o spiegazione) di alcune parole.

Il fascino di “Canne al vento” rimanda, a posteriori, nella nostra presunta e presuntuosa modernità, tanto alla riemersione del romanzo sardo con Michela Murgia, quanto al confronto tra lo stile verghiano e quello di un genere completamente differente ma che si avvale della colloquialità siciliana tra poliziotti, indagati e gente comune così come bene espressa nelle pagine montalbaniane di Andrea Camilleri. Il successo di tutte queste opere, pure appartenenti a filoni narrativi molto diversi fra loro, oltrepassa il tempo in cui sono stati concepiti e ne decreta una sorta di classicità.

La semplicità della storia si riflette, almeno per quanto riguarda lo stile di Grazia Deledda, nella contrapposizione tra il dolore, il senso di colpa tutto interiore, accuratamente ben occultato da Efix (Efisio) che custodisce il segreto dei segreti per una casa a cui rimane devoto fino alla fine e la cui morte rientra nei canoni della dipartita in piena solitudine, durante un giorno di festa: un matrimonio. Un evento raro nella casa delle dame Pintor. Ma sarà proprio l’amore il punto di svolta delle pagine del romanzo.

A cominciare da quello di Lia che guarda al mare e al continente, per passare a quello quasi paterno del servo per le sue padrone e per finire in quello di Giacinto per Grixenda: povertà con povertà, riconoscenza e riconoscimento dei sentimenti che si traducono, nel lunghissimo trascinarsi del tempo che, tra i borghi del nuorese, pare immobilizzarsi mentre tutto attorno l’isola cambia col cambiare dell’Italia, in emblematiche ed iconiche rappresentazioni delle scene di vita e di sopportazione della stessa.

Grazia Deledda costruisce i periodi con cadenze musicali che vanno dalla dolcezza espressiva delle parole in famiglia e di famiglia, alla ruvidezza di un dialetto che è lingua nazionale, che è fondamentale pietra angolare di una cultura che non scolorisce e non si lascia trascinare via dalla vorticosità delle novità moderne di una fine d’Ottocento in cui il mutamento è all’ordine del giorno: ad iniziare dalle istituzioni e dai rapporti sociali. Gli stessi nomi dei personaggi sono quasi impermeabili al resto della vita della nuova Italia.

Predu, Kallina, Grixenda, Zuannantoni, Efix. Giacinto no.  È già più afferente ad una comprensibilità intima rispetto alle consuetudini di un’Europa in pieno stravolgimento, in cui il regno nato da pochi decenni si trova catapultato nelle avventure coloniali, nella competizione globale che lascia sullo sfondo le vicende risorgimentali e le affida alla Storia da scrivere di lì in avanti. C’è nel romanzo una vena di orgoglio un po’ per tutto e che, quasi da tutti, si percepisce: non riguarda solamente le tradizioni familiari, ma anche il modo di pensare, di esprimersi, di comportarsi singolarmente.

Sembra salvarsi soltanto Efix da questa venatura profonda di autoreferenzialità nel tempo e del tempo. La sua è una umiltà genuina, priva di calcoli, dettata dalla condizione in cui ha sempre vissuto e che è affidata, nelle profonde riflessioni che dedica a sé stesso nel confrontarsi con gli altri, ad una contemplazione ieratica tanto della natura che lo circonda quando della ormai decadente maestà della famiglia in cui ha sempre prestato servizio.

Questa caratteristica che il protagonista vero del romanzo possiede gli permette di scostarsi da una crudezza durevole che gli altri mantengono reciprocamente quando si confrontano e si affrontano: le loro parole diventano disquisizioni e punti di principio molto aspri che, talvolta, trascendono in una alterazione dei sentimenti originari. Ma, nonostante tutto, prevale un ricorso ad un piano di dignità che preclude la possibilità di scadere nel volgare e nel gretto.

Quando la contemplazione prevale nell’animo del servo delle dame Pintor, è proprio Grazia Deledda a viverne l’intimo rapimento che lo prende mentre guarda i muri del mulino, le piante che si arrampicano, gli alberi e il cielo che si staglia all’orizzonte e si congiunge con le colline e la campagna. La luna rimane immobile, in un cielo che specchia le esistenze piene di un vuoto che è dato dalla ciclicità di una vita sempre uguale, grigia, a tratti sordida, malevola, ma non scevra da sentimentalismi.

Le canne al vento sono, del resto, la similitudine più azzeccata per queste ombre che sono corpi che vagano tra le vie dei borghi, dentro e fuori vecchie case ormai fatiscenti e di cui rimane, sasso su sasso e fruscio del vento dietro altro fruscio che vi penetra in mezzo, solamente l’immagine del passato che non ritorna nemmeno più nella forma tangibile dell’essenza materiale delle cose. La rovina si è presa gioco della casa, della famiglia, dei sentimenti. Il tempo ha fatto il suo corso ed è impietosamente passato sopra tutto.

La natura rimane, in quella che potremmo definire una “sacralità pasoliniana”, un palcoscenico che fa dimenticare per qualche istante la drammaticità del racconto, avviluppato dal presentimento, da parte dei protagonisti, di terribili segreti inconfessati. L’ombra del sospetto si estende sopra quelle esistenze che sono un percorso penitente: tanto per Efix quanto per le dame Pintor. Il ricordo di ciò che fu non è cancellabile e stride con le rappresentazioni paesane delle feste e delle sagre che colorano il grigiore della continua ricerca di sé stessi.

L’ondeggiare delle canne, mosse dalla dolcezza o dalla feroce impetuosità del vento, è la simbologia di un adattamento continuo ad una avversità dell’essere che è cullato o tramortito dagli eventi cui non può sottrarsi e che la maestria narrativa della Deledda descrive con grande acume, preservando per ogni fisionomia il carattere che le appartiene e stando particolarmente attenta, tranne che nel caso di Efix, a non mescolarsi troppo con le proprie creature romanzesche per non ridurle al livello del feuillenton.

Ma proprio dai romanzi d’appendice proviene un tratto unico della narrazione deleddiana: se si trattasse della Settima Arte, potremmo dire – non senza azzardare – che c’è qualcosa di hitchcockiano nella premessa mortifera, nella misteriosa fine di don Zame, il capostipite della famiglia. Là sul ponte dove è stato trovato privo di vita rimane inchiodato l’insoluto, l’impenetrabile, ciò che ci si porterà appresso per tutta la vita come Senso di Colpa per eccellenza, degno delle maiuscole appena messe.

I morti vanno lasciati in pace, sentenzia Efix. Si vocifera di folletti dei boschi che avrebbero cattive intenzioni, che vagherebbero in cerca di vittime, di anime. Si parla di fattucchiere, di magia bianca e nera, di vecchi riti che esorcizzano le paure ma che ne suscitano indubbiamente molte altre. Ed accanto a tutto questo brilla la rivoluzione che Giacinto porta nella stanca abitudinarietà al consueto ripetersi dei giorni dopo giorni, sempre uguali, sempre prevedibili. Il podere è la quintessenza della certezza, della tranquillità, della conservazione.

L’amore è sconvolgimento, turbamento, scomposizione di ogni decrepita sicurezza delle mura e di quello che ancora contengono: la natura pacifica, riappacifica e media tra le emozioni. Così come le parole del servo che, sempre con reverenza e grande affetto, si rivolge alle sue padrone. Il villaggio è il punto di incontro tra antichità e modernità: lì la vita si svolge in una crudezza di rapporti che sono la conseguenza dell’asprezza dei luoghi, di terreni brulli come di campagne rigogliose.

La congiunzione tra il palazzo Pintor e il continente avviene proprio qui: nella comunità che deve aprirsi al moderno, che deve fare i conti con la soluzione di una continuità dura da vincere. Non si tratta di resistenza tradizionalista, ma di sopravvivenza in un mondo che, se abbandonato, rischia l’oblio, la cancellazione in virtù della seduzione del nuovo. Sono un po’ i turbamenti che Noemi prova di fronte al matrimonio: i suoi sguardi severi a chi la induce a sposarsi fanno da contraltare al desiderio che sente.

La dimensione ambientale viene qui vissuta in tutta la sua espressione prettamente sentimentale. Il palazzo è un antefatto difficile da lasciarsi alle spalle. La morte aleggia come sembianza del fluire di un tempo inesorabile che costringe a sostituire i ricordi ai ricordi, il futuro al passato, il presente al poco prima dello stesso. Noemi non è felice dell’unione con Predu. Non è un amore, ma una ripulsa che grida al destino, intangibile e, per questo, ancora più controversamente disprezzato.

La disperazione della povertà induce Noemi al gran passo, mettendo da parte orgoglio da un lato e pregiudizio dall’altro. Nonostante possa sembrare un passo salvifico per il casato, il giudizio critico positivo sul matrimonio tra cugini è, in questo caso, un falso evidente: nonostante si resti nell’ambito della tradizione domestica, l’infelicità è manifestamente esposta dalla Deledda e non lascia adito ad interpretazioni. Non sempre la conservazione dell’esistente è salvifica: tanto per le tasche quanto per il proprio animo.

Si ritrova così, tra i pensieri di Efix e i drammi di Noemi, una riproposizione della ricerca del senso di una esistenza che è irriscontrabile tanto nel micro quanto nel macromondo moderno che si affaccia al Novecento. Pagina dopo pagina, l’autrice sembra indurci a considerare la possibilità di venire a patti con le nostre pene, persino con la spasmodica propensione a cercare un perché del tutto. Ma la scoperta terribile sta nel rendersi conto che, per ogni presupposto risolto perché, il giorno dopo se ne ritroveranno almeno altri dieci, cento…

Le canne al vento si muovono e difficilmente si spezzano. Ma sono in balia del vento e possono solo adattarsi, piegandosi quando è il momento, rimanendo ritte quando, per qualche attimo, ritrovano la loro compostezza statuaria, il loro protendersi verso l’alto e non il dover, di continuo, chinarsi a guardare lo stagno e il suolo su cui l’intera vita si svolge.

CANNE AL VENTO
GRAZIA DELEDDA
BUR, RIZZOLI, 2008
€ 10,00

MARCO SFERINI

23 ottobre 2024

foto: particolare della copertina del libro


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