La libertà di movimento è vita. Cosa si fa per punire un individuo? Lo si reclude, lo si getta tra quattro mura, magari anche confortevoli, gli si concede qualche ora d’aria e di lavorare dentro la struttura carceraria, ma sempre di “internità” si tratta. Ci sono, dunque, dei limiti imposti, delle regole da seguire ogni giorno. Regole e limiti che non cambiano mai, che sono sempre le stesse.
Così come sempre gli stessi i giorni che passano. Appunto, si diceva, la libertà di cambiamento, la scelta di fare oggi questa e domani quell’altra strada, di scegliere cosa fare, dove andare e dove rimanere, è vita.
Chi arriva alla frontiera francese e non può muoversi da lì ma deve rimanere per forza in territorio italiano, non ha più una vita davanti, ha soltanto una speranza intangibile, un sogno che si infrange contro la dogana della Republique, contro un confine che riforma i contorni degli stati nazionali per misure di sicurezza, contro il terrorismo di Daesh.
Dunque, degli esseri umani non possono migrare, non possono muoversi liberamente. E dire che hanno spiegato molte volte che vogliono solo passare per la Francia, andare a nord, non fermarsi in un paese che ha la fobia, in qualche modo anche giustificata, del terrore bombarolo e dei coltelli delle quinte colonne del califfo Al Baghdadi.
Ma tutto ciò non basta. E così le manifestazioni dei “no borders” si susseguono, i giornali, pensando di etichettarli con stigma, li chiamano “anarchici” senza sapere che molti non lo sono nemmeno se andiamo a scorgere un punto di vista prettamente ideologico.
Però l’anarchismo ti sale dentro, ti divora quando vedi la forza dello Stato che si vuole imporre perché ha paura, perché teme la presa di coscienza non solo dei “no borders” che, se si trovano lì al confine con i migranti significa che già hanno una coscienza critica e sociale, ma soprattutto dei migranti stessi.
Ogni migrazione oggi è vista come una minaccia all’integrità dei popoli, all’Europa che si fa fortezza per l’ennesima volta e che protegge i suoi interessi economici dalla destabilizzazione che subirebbero alcuni suoi Stati membri e che riverserebbero su una sovrastruttura politica molto debole, a traino tutto germanico.
Così le scene si ripetono: avanzamenti e respingimenti a mezzo pullman. Perché chi si getta in mare e tocca il suolo francese viene subito riportato indietro e riconsegnato alla polizia di frontiera italiana.
Sembra di stare nel film con Totò e Fernandel: “La legge è legge”, dove ad un certo punto il povero Pastorellì cammina sulla linea zebrata che separa Italia e Francia perché nessuna delle due nazioni lo riconosce come proprio cittadino. E allora si allontana come un funambolo su un filo teso in alto, si addentra nel bosco e poi sparisce per ricomparire in cima ad una montagna per la propria vendetta.
Qui nessuno può sparire, nessuno può tentare di riprendersi la vita e di essere libero. Non c’è terra, non c’è confine da passare, non c’è domani per questa gente in balia non tanto della burocrazia che aveva reso Fernandel apolide; qui non sembra esserci il riconoscimento di un principio di umanità: lasciare che un individuo che ha una sua patria, una sua origine logistica e che ha un documento e un passaporto, possa provare a cercare un luogo dove posare le proprie radici. Anche per poco tempo, giusto quello per fuggire dai mercanti della morte africani, dagli scafisti e dalle guerre civili in corso in Siria ed Iraq.
Ma “la legge è legge”. E siccome la fanno altri uomini che si ritengono in diritto di trattarne altrettanti da subordinati, la legge ancora una volta diventa una clava che si abbatte sul più debole e che difende dei privilegi in nome di una sicurezza di Stato che è “di Stato”, appunto, e non dei cittadini.
MARCO SFERINI
7 agosto 2016
foto tratta da Pixabay