Le ambivalenze sono manifeste. Il Covid-19 ha reso la politica di palazzo ancora più malleabile alle esigenze di un mondo industriale che reclama con vigore piattaforme di privilegi rinnovati e nuovissimi: a partire dalla burocrazia. Che in Italia esista un vasta rete di protocolli che uniformano l’azione dell’amministrazione, a tutti i suoi livelli, non è certo una scoperta dei tempi della pandemia.
Ma è opportuno distinguere tra le funzioni di una burocrazia necessaria, volta a tracciare i passaggi di una pratica dall’inizio alla fine, per offrire, ad esempio, servizi al cittadino, da una burocrazia che diviene una vera e propria “livella” e che non distingue le particolarità ma tratta tutti indistintamente secondo le rigide maglie dei regolamenti e delle norme di legge.
Croce e delizia di qualunque Stato: c’è chi riesce storicamente a gestire il tutto con una perfetta (o quasi) linea di collegamento tra basso e alto o tra inizio e fine del processo burocratico (si può prendere a prestito il pregiudizio germanico in merito); e c’è poi chi, invece, utilizza la burocrazia come un azzeccagarbugli, per trovare tra le maglie della legislazione questo o quel cavillo che consentano di trarre dalle tasche dei più deboli di questa società il massimo e fare l’esatto opposto con i grandi ricchi, i grandi evasori e tutti coloro che la burocrazia la conoscono bene e, pertanto, sanno come aggirarla.
Laddove questo non è possibile, ci pensa la pandemia a renderlo urgente: perché è proprio laddove la catena burocratica diventa rigido controllo contro le infiltrazioni delle associazioni malavitose, delle mafie in generale, della recrudescente volontaria, che arriva pronta la voce di chi chiede il classico “snellimento” delle pratiche, la “semplificazione” normativa e ogni altro strumento di diradamento del controllo da parte della Repubblica nei confronti del privato.
Si tratta, in fondo, sempre di una lotta tra (anche) buoni propositi amministrativi, a tutela del bene comune (inteso come principio di interesse generale) quanto dei beni comuni (intesi come proprietà pubblica vera e propria, ricchezza prodotta dal cosiddetto “sistema-Paese”), e un comparto di interessi privati che, per loro intrinseca natura, devono confliggere con la stessa idea / ideologia di “pubblico“.
In fondo, tutto ciò rappresenta la risposta alla legittima domanda: “Ma che interesse può mai avere un partito della maggioranza di governo, piccolo e mai passato attraverso il vaglio del consenso popolare tramite il voto, a giocare una partita pericolosa per la tenuta tanto dell’esecutivo quanto del proprio ruolo al suo interno?“.
Si tratta di ottenere il massimo risultato col minimo sforzo: ed è quello che avviene dalla scorsa estate, da quando, formatosi il governo Conte 2, attorno ai due grandi (si fa per dire) soggetti contraenti il patto, si sono posti quelli che un tempo venivano definiti i “cespugli“. Dal lato sinistro Liberi e Uguali di Grasso, Fratoianni e Bersani, dall’altro Italia Viva di Renzi.
Cronache ormai lasciate alla storia, ci dicono che proprio a partire dalla nascita del nuovo governo è emersa platealmente la funzione apparentemente insignificante di una formazione politica nata per scissione dal Partito Democratico. Ciascuno ricopre il suo ruolo politico di rappresentanza di classe all’interno delle istituzioni repubblicane: Liberi e Uguali si batte per guadagnare al riformismo di sinistra qualche punto nel programma di governo, mentre Italia Viva sul versante opposto cerca di trascinarne la rotta verso destra, su posizioni liberiste, tanto da diventare terra di mezzo tra maggioranza ed opposizione, acquisendo anche nuovi deputati dalle fila di Forza Italia.
La burocrazia, in fondo, è una concezione applicata, giorno per giorno, di un disegno tutto politico (e sociale) che guarda alla (verrebbe da dire…) semplice gestione dello Stato in quella ambivalente suggestione rappresentata dall’eterno contrasto tra pubblico e privato che finiscono per essere fenomeni di uno stesso contesto economico, osservato da punti di vista differenti.
Dunque, se ci si domanda ancora quale sia la tattica adottata da Italia Viva in quel del Senato della Repubblica, nella discussione sulle mozioni di sfiducia al ministro Bonafede; se ci si domanda se davvero fosse quella la materia del contendere o non nascondesse altri segnali indirettamente inviati alla Presidenza del Consiglio e alle altre forze della maggioranza, la risposta a queste domande è che si è soltanto giocata un’altra mossa che ha dato vantaggio alle posizioni privatistiche e liberiste in materia di orientamento della burocrazia.
Apparentemente nell’interesse comune e pubblico, la vittoria del privato è ampia: non solo Conte, ma anche i Cinquestelle sono stati condizionati dal dibattito sulla sfiducia al ministro Bonafede. L’unica contromossa, quella di vincolarne la fiducia alla tenuta dell’intero governo, è servita soltanto a rimandare uno scontro che, superata la fase emergenziale sanitaria, diventerà il terreno di conquista di una nuova rappresentanza politica del grande affarismo italiano sulle costruzioni, l’edilizia e le infrastrutture. Una legittima rappresentanza di classe.
Tale e quale quella che fino ad oggi, da “sinistra“, ha costruito tutte le premesse e ha messo le basi perché il progressismo anche soltanto timidamente socialdemocratico divenisse un nuovo scendiletto del padronato italiano. La gara continua: chi soddisferà meglio la tenuta dei privilegi imprenditoriali? Chi non batte ciglio alla richiesta di FCA di miliardi di euro da spendere in dividendi aziendali o chi si premura di inaugurare al più presto nuove grandiose opere impattanti sull’ambiente e frutto di un lavoro sempre meno dignitoso, sempre più insicuro e precario?
La lotta di classe c’è… sembra non esistere, ma c’è, eccome…
MARCO SFERINI
21 maggio 2020
Foto di Domenico Mattei da Pixabay