Giovanni Brusca, pluriomicida di mafia, esce dal carcere dopo aver espiato la pena con 25 anni di reclusione. Ricordando alcune delle sue numerosissime vittime come Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, gli agenti della scorta e, soprattutto, il piccolo Di Matteo, c’è in giro una grande indignazione e perfino stupore per l’entità della pena e, ovviamente per la scarcerazione. Quest’ultima però ha una sua spiegazione nella legge che, per essere uguale per tutti, deve essere uguale anche per Brusca.
La pena di morte è stata cancellata nel nostro sistema sanzionatorio con l’articolo 27 della Costituzione. La pena massima ora è quella dell’ergastolo che però non si sconta mai interamente dato che un ergastolano (o un condannato ad altra pena detentiva), dopo aver superato un percorso rieducativo può essere ammesso ai vari benefici quali l’assegnazione al lavoro esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione, fino alla liberazione anticipata.
Una concatenazione di leggi riguardanti i condannati per molti specifici reati (mafia e terrorismo in testa), però, ammette la concessione di questi benefici solo a chi collabora con la giustizia. Così stabilendo, il legislatore ha reso, con l’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario, l’ergastolo perpetuo, detto ostativo, per quanti non vogliono collaborare.
Giovanni Brusca non ha dovuto dare segni di pentimento interiore, (facili da spendere e difficili da controllare) ma ha collaborato dando così ai giudici elementi per far luce su Cosa nostra e su molti delitti.
Brusca ha stretto, cioè, un patto con lo Stato sul piano della reciproca utilità e questo patto lo Stato lo ha rispettato, ieri sottraendolo alla pena dell’ergastolo e oggi scarcerandolo per espiata pena.
Uno stato di diritto non poteva fare altrimenti: le leggi sui collaboratori non possono essere esaltate quando permettono successi giudiziari e poi denigrate quando mostrano i loro frutti amari, specie per le vittime e i loro parenti.
La vicenda di Brusca richiama alla mente la quasi coeva indignazione per la recente sentenza della Corte costituzionale proprio sull’ergastolo ostativo.
È ovvio che questo tipo di ergastolo, che implica il «fine pena mai», è in conflitto con l’articolo 27 della Costituzione dove si stabilisce tra l’altro che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato», una rieducazione che dovrebbe logicamente portare prima o poi ad una liberazione di quest’ultimo.
L’ergastolo ostativo è stato concettualmente inquadrato nel divieto di cui all’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per il quale «nessuno può essere sottoposto a torture né a pene o trattamenti inumani o degradanti».
Conseguentemente la Corte europea per i diritti dell’uomo (Cedu) da tempo ha stabilito la non conformità alla Convenzione di questa pena.
Anche la nostra Corte costituzionale aveva rilevato la non conformità alla Carta di un divieto che poteva riguardare un condannato che pur non collaborando aveva seguito un percorso rieducativo e non aveva più nessun contatto con la criminalità organizzata. Da poco, comunque, nell’inerzia del parlamento, la Corte con la sentenza del 15 aprile scorso, ha dichiarato la incostituzionalità (condizionata) di quella disposizione per contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione.
Dando al legislatore anno di tempo per adeguarla alla Carta poiché «l’accoglimento immediato della questione rischierebbe di inserirsi in modo non adeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata».
Un anno di tempo, quindi, ma la fine dell’ergastolo ostativo è segnata dato che l’inerzia eventuale del parlamento comporterebbe un ulteriore intervento della Corte che, a questo punto, ne sancirebbe la incostituzionalità immediata: c’è da rallegrarsi perché certi meccanismi istituzionali funzionano e riaffermano lo stato di diritto. Comunque apriti cielo anche per questa decisione che, detto per inciso, il consigliere del Csm Di Matteo in televisione ha visto in consonanza con una delle richieste del famoso «papello» di Riina: un quasi concorso esterno in trattativa dei giudici di Strasburgo e della Corte costituzionale?
Alcuni stati hanno già iniziato a togliere l’ergastolo dal loro sistema penale (Spagna, Svezia, ecc.) ma quello che dovrebbe impressionarci di più è l’abolizione dell’ergastolo nella legislazione del Vaticano, una pena che Papa Francesco ha più volte equiparato a una condanna a morte dilazionata nel tempo.
Certo con questi chiari di luna è difficile pensare che l’Italia possa raggiungere a breve un tale livello di civiltà giuridica, ma almeno che si contrasti l’indignazione per decisioni che rispettano la Costituzione e le leggi che da essa promanano.
GIUSEPPE DI LELLO
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