Brigate rosse, una storia italiana

Ci sono due modi per trattare la storia delle Brigate Rosse: uno è l’approccio metodicamente storico che prescinde da una qualunque partigianeria o detrazione di tipo politico; l’altro è...
La stella asimmetrica a cinque punte, simbolo della BR

Ci sono due modi per trattare la storia delle Brigate Rosse: uno è l’approccio metodicamente storico che prescinde da una qualunque partigianeria o detrazione di tipo politico; l’altro è un accostamento invece di quest’ultimo genere, politico e politicista sia che esso tratti la storia del Partito Comunista Combattente su un piano di distinzione o di relazione ideologica, culturale, sia che la tratti su un versante di aspra critica.

E’ molto difficile per un comunista separare le lenti dell’osservazione e adottare o questa o quella. La tentazione è di sovrapporle ed arrivare ad una sintesi che coniughi i meri e crudi fatti con un giudizio anche politico e quindi sviluppare una analisi compiuta e, certamente, di parte di quella che, nel bene o nel male è una storia italiana, una storia della sinistra italiana.

La premessa era necessaria per evitare che si confondano cronaca e storiografia, atti appunto storici e processuali con azioni che li hanno anticipati.

Le Brigate Rosse vengono sovente giudicate, anzi pre-giudicate come un insieme di donne e uomini che scegliendo la via della lotta armata si misero automaticamente fuori da qualunque possibile critica politica, inserendosi invece così in un contesto di condanna morale a tutto tondo.

In realtà il fenomeno brigatista è molto più complesso di quanto possa ancora oggi sembrare e prescinde dalla simpatia o dall’antipatia politica per la lotta fatta con le armi invece che con gli strumenti della democrazia e della delega parlamentare. Quando nascono, le BR sono rappresentanza di una minoranza nelle fabbriche del Paese. Tutta la loro vita si svilupperà essenzialmente al nord e non riuscirà mai a diventare un movimento esteso in tutta la Penisola.

La letteratura storico-politica ha prodotto innumerevoli studi sul fenomeno brigatista italiano, paragonandolo ad esperienze anche di altri paesi: dalla RAF tedesca ad Action Directe in Francia, passando addirittura per le esperienze indipendentiste e filomarxiste irlandesi e basche. Ci ritorneremo più avanti. Ma, tra tutti i libri scritti con grande acume e precisione, con un vero metodo storico, risulta particolarmente accattivante l’intervista fatta da Carla Mosca e Rossana Rossanda per sei giorni, dietro le sbarre del carcere, a Mario Moretti.

Mario Moretti ha affermato che la storia delle Brigate Rosse è un «frammento di storia politica e non una storia penale». Un assunto corretto, perché l’organizzazione aveva finalità politiche. Che le perseguisse con metodi violenti e inaccettabili per uno Stato democraticamente molto giovane e spesso sotto la minaccia di tentativi eversivi (soprattutto, anzi quasi esclusivamente di estrema destra), è una valutazione ulteriore, un punto etico che non può essere scansato dalla narrazione della storia.

Brigate rosse, una storia italiana” (edizioni Mondadori, 2007) è un documento incredibile, una sorta di puntata di “Storie maledette” di Franca Leosini ante litteram. E’ una intervista coinvolgente dalla prima all’ultima parola. E spiace davvero che non continui, che non abbia altro da dire dopo la sua conclusione. Si vorrebbe che non vi fosse alcuna cesura, alcuna fine, perché la sete di conoscenza viene alimentata dalla particolareggiata narrazione degli eventi: una ricostruzione meticolosa nella memoria di Moretti, alimentata dalle domande acute e mai scontate o banali di due grandi giornaliste dal profilo professionale e culturale reciprocamente differente e, per questo, ancora più dinamico nel suo diventare dialogo con il brigatista mai pentito.

La contestualizzazione giudiziaria del brigatismo rosso è frutto di una sconfitta che, prima di tutto, è sconfitta delle fondamenta politico-organizzative delle BR e che consente di affermare che la lotta armata era non solo impossibile nell’Italia del dopoguerra ma che poggiava su una analisi di classe velleitaria e su una eccessiva considerazione della preparazione in questo senso delle lavoratrici e dei lavoratori italiani.

Dalla Siemens ai Comitati Unitari di Base della Pirelli (una delle prime esperienze di contrapposizione ai sindacati tradizionali) guidati da Raffaello De Mori, dalla facoltà universitaria di Trento alle esperienze singole di quella che ancora veniva chiamata la “Resistenza tradita“.

Le BR vengono da molteplici esperienze non “estremiste” (come sarebbe fin troppo semplicistico definirle), ma da ambiti di lavoro e di studio che hanno creato poi il primo “gruppo di studio“, di cui Mario Moretti e Renato Curcio faranno parte. L’uno operaio, l’altro universitario. Siemens e Università di Trento. Due percorsi del nord: Milano e la città di Cesare Battisti si incontrano nel cammino verso la formazione di una alternativa al sindacalismo e alla sinistra comunista italiana che non dava a questi uomini e a queste donne la sensazione di essere alternativi al sistema che dicevano di volere rovesciare.

Sembrano parole molto antiche, lontano nel tempo, eppure parliamo di soli quarant’anni fa. E molti dei protagonisti degli anni di piombo e del terrorismo rosso (anche questa definizione sarebbe tutta da discutere) sono ancora in carcere, molti hanno scontato le loro pene detentive, proprio come colui che è considerato il fondatore e l’ideologo delle BR: Renato Curcio, l’uomo che non ha mai ucciso nessuno e che ha fatto sedici anni di carcere per intero. Ora si occupa di cultura, ambiente e ha fondato una casa editrice che pubblica testi interessantissimi. Per i più curiosi cercare su Internet alla voce “Sensibili alle foglie“.

Ma tornando alla nascita delle BR, nonostante la diversificazione delle strade, è unanimemente riconosciuto – anche per bocca dei protagonisti che ne hanno rievocato la storia – che la parte più consistente del movimento brigatista arriva dalla fabbrica, dal mondo della produzione e del lavoro salariato.

Anche le Br, proprio come il grande protagonista della politica di sinistra nazionale, il PCI, non riusciranno a farsi molto largo tra le masse studentesche. Il loro approccio sarà quasi sempre legato alle industrie. All’inizio tutti gli operai hanno verso di loro una certa diffidenza: non comprendono le differenze tra questi rappresentanti dei lavoratori, le Commissioni di controllo, i sindacati e il Partito Comunista Italiano.

Non esiste ancora, verso la fine degli anni ’60 una strategia della lotta armata. Non esiste nemmeno la clandestinità cui presto si dovranno abituare tutte le brigatiste e i brigatisti.

Del resto le BR sono diverse da ogni altra esperienza di lotta che esiste nel resto del mondo: non assomigliano alla RAF tedesca che non cerca la massa operaia, ma compie invece azioni isolate e quindi di vero e proprio terrorismo; non hanno il profilo nemmeno della lotta resistenziale italiana: cercheranno di rivendicare storicamente il ruolo delle Brigate Garibaldi, ma verranno molto presto sconfessate e loro stesse non cercheranno, dopo un primo tentativo, più alcun accostamento con i partigiani rossi; non sono paragonabili all’ETA basca o all’IRA irlandese per la connaturazione nazionalistica delle due organizzazioni; così nemmeno all’OLP di Arafat che ha nel suo seno anche frange marxiste.

Le BR sono una storia a parte, tutta e solo italiana. Cercheranno contatti con formazioni d’Oltralpe ma non vi sarà mai una connessione internazionale tra il brigatismo peninsulare e, ad esempio, quello francese di Action directe.

Dal primo rapporto con le fabbriche degli ultimissimi anni ’60, dicevo, arrivano piano piano alla costruzione della loro base ideologico-politica, quindi ad una organizzazione clandestina che si fonderà sulla esclusività della lotta armata a sinistra. Resteranno l’unica formazione politica con queste caratteristiche (se non si considerano i banditismi di Prima Linea, di certo profondamente inferiori come aderenza “sociale” e come prospettiva rispetto alle BR).

La lotta armata si fonda, per i brigatisti, sul sovvertimento del potere dello Stato borghese e quindi su quella famosa espressione ripetuta sempre nei documentari televisivi: “attacco al cuore dello Stato“. La Democrazia Cristiana è il nemico, il PCI rimane un grande aggregatore di comunisti che sbaglia strada, una “bellissima barca mal guidata”.

Secondo i brigatisti il capitalismo si organizza internazionalmente nel “S.I.M.“, lo “Stato Imperialista delle Multinazionali” che ha in ogni singolo paese dei soggetti, dei partiti che lo rappresentano. In Italia, questo partito è la Dc, il “partito-Stato“.

L’invenzione del “S.I.M.” è forse la più stravagante teoria che Moretti, Curcio, Franceschini e Cagol inventano. La discussione sulla buona fede nella credenza o meno di questa analisi del capitalismo e del suo sviluppo planetario si ferma davanti alle parole dei brigatisti stessi: loro credono sinceramente a quello che scrivono.

Le Brigate Rosse, dunque, credono che smantellando il potere dello Stato si frantumerebbe anche quello della Democrazia Cristiana e si aprirebbe in Italia una via rivoluzionaria verso il comunismo. Nei loro comunicati, anche durante il sequestro di Aldo Moro, si rivolgeranno sempre “Alle organizzazioni comuniste combattenti, al movimento rivoluzionario, a tutti i proletari“. L’incipit sarà sempre ecumenico: “Compagni“, virgola a capo.

E partirà sempre una circostanziata analisi della fase, della situazione e quindi la spiegazione della loro azione di guerriglia. Sì, perché loro si considerano dei Fidel Castro e dei Che Guevara e quando, all’inizio, qualche azione anche di semplice rapina per comperare le armi che gli serviranno in seguito fallisce, se lo ripetono: «Anche Fidel Castro venne battuto nell’assalto alla caserma Moncada».

Ma nemmeno questo parallelismo funziona. Fidel Castro inizia la sua guerra contro Batista senza avere come obiettivo il socialismo. Sarà il Che ad introdurre il marxismo e quindi l’obiettivo egualitarista nella rivoluzione. Elemento non certo secondario, che condurrà alla vittoria il popolo “insurgente“.

Le BR alzano il tiro con gli anni a seguire: gambizzano giornalisti, rapiscono giudici, procuratori, iniziano ad avere scontri a fuoco con le forze dell’ordine. La lotta diventa davvero senza quartiere: sia nel senso vero del termine, sia perché quartiere non ne ha. Ora hanno base a Torino, ora a Milano, ora un loro covo viene scoperto, ora viene fatto scoprire per depistare le indagini.

Gli operai non le seguono. E’ nota la storia di Guido Rossa e il loro definitivo fallimento nel cercare il consenso dei lavoratori proprio con l’omicidio a sangue freddo del sindacalista comunista della CGIL. Il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro sono uno dei tanti misteri della Repubblica Italiana. Si sa tutto e in realtà non si sa niente dei segreti di Stato che vennero tarpati, del controverso ruolo del Sismi e del SISDE.

Di sicuro si può, su un piano politico, affermare che le BR volendo colpire il “cuore dello Stato“, non fecero altro che indebolire il fronte progressista. Volevano spingere l’ala più radicale del PCI a far cambiare rotta al più grande partito comunista europeo, ed invece finirono – seppure indirettamente – col favorire nuove leggi speciali e nuovo securitarismo da parte dell’ordine democristiano che governava senza soluzione di continuità.

La loro fine è difficile da segnare sulla linea del tempo; proprio come è difficile segnare la loro nascita.

Sappiamo che la loro storia non è separabile dal resto della storia repubblicana italiana. E’ una storia che ha contribuito comunque a rendere consapevoli i proletari e i comunisti che esistono molti modi per lottare. Quello delle BR era contestualmente sbagliato e privo di senso. Non è un giudizio che do personalmente, è un giudizio che è consegnato dalla storia e alla storia.

Ma, detto questo, quello che non è possibile fare, su un piano esclusivamente morale, è condannare aprioristicamente la storia della Brigate Rosse. Se avessero avuto ragione e avessero vinto, probabilmente oggi quei prigionieri delle galere dello Stato italiano li chiameremmo eroi e Margherita Cagol avrebbe delle vie intitolate in tutta Italia. Ma, dai tempi di Brenno, si conosce il motto… Vae victis. Guai ai vinti!

BRIGATE ROSSE, UNA STORIA ITALIANA
INTERVISTA DI CARLA MOSCA E ROSSANA ROSSANDA
MARIO MORETTI, EDIZIONI MONDADORI, 2007
€ 14,00

MARCO SFERINI

2013, aggiornato al 20 ottobre 2021

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