Lo confesso: mi dispiace che il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord abbia abbandonato l’Unione Europea. Questo non per motivi legati a chissà quale sostegno alle politiche comunitarie fatte soprattutto di intrecci e intrighi bancari tra i vari stati membri.
Semmai, è un dispiacere “storico“, che guarda al quasi mezzo secolo in cui una grande nazione come quella britannica ha comunque giocato un ruolo di stabilità in molte dispute europee e ha contribuito con la sua democrazia liberale alla formazione delle istituzioni di una Europa che, altrimenti, sarebbe scivolata ancora di più verso un liberismo incontrollato e incontrollabile.
Storicamente, per l’appunto, il Regno Unito è parte dell’Europa ma è soprattutto sé stesso: la condizione geografica conta parecchio nella storia millenaria dell’Inghilterra che ha partecipato alle guerre continentali nel Vecchio Mondo ma che è sempre riuscita ad evitare qualunque invasione del proprio territorio.
E’ un dato questo di non poco conto nella valutazione tanto dell’autonomia e dell’indipendenza di un paese sia sul piano esclusivamente politico-istituzionale sia su quello economico.
Lo sviluppo industriale dei secoli di espansione della modernità del capitalismo, il diciottesimo e il diciannovesimo, è localizzabile non solamente nell’Inghilterra che anche Marx conobbe e studiò a lungo, ma essenzialmente ogni trasformazione successivamente proiettatasi nel resto del pianeta sul terreno sociale ed economico trova la sua origine nell’isola degli Angli e dei Sassoni.
Lo “splendore” della civiltà inglese, a partire dalla “Magna Charta Libertatum” di Giovanni Plantageneto, passando per la rivoluzione di Oliver Cromwell e arrivando fino alla sconfitta del bonapartismo nel primo decennio dell’800, si scontra con la dura necessità di essere pienamente aderente al regime del profitto e delle merci e ad essere manifesto primordiale, quella nazione che mostra alle altre il proprio futuro, come ebbe a scrivere il Moro.
E’ pur vero che alla Gran Bretagna non si può di certo imputare una tendenza imperialistica moderna maggiore rispetto a quelle di altre nazioni che si definiscono parimenti democratiche e, per lo più, sono non monarchie ma consolidate repubbliche: dalla Francia, che ha un profondo senso laico dello Stato che le discende dal trittico rivoluzionario “Libertè, Egalitè, Fraternitè” e da un giacobinismo mai veramente condiviso pienamente, fino al paradosso più eclatante, alla contraddizione più evidente tra adozione assoluta del capitalismo come regolatore della vita sociale e, insieme, l’apparente massimo garantismo in tema di diritti sociali e civili: gli Stati Uniti d’America.
Va riconosciuto, poi, che la Gran Bretagna, tanto tempo prima che venisse inventata una “dottrina Mitterand” in salsa ottocentesca, è stata il rifugio per molti liberi pensatori, creando le condizioni per poter essere definita per l’appunto un paese quanto meno tollerante il dissenso politico privo di qualunque connotazione marcatamente declinata nell’interpretazione religiosa: la sfida al papato che prende il via dallo scisma di Enrico VIII è stata la spinta propulsiva per tante persecuzioni di massa, che non sono venute meno neppure con l’avvento del costituzionalismo parlamentare e la fine dell’assolutismo monarchico.
Oliver Cromwell, per molti versi politico e generale versatile e geniale, non ha certo brillato in tolleranza e umanità nelle sue campagne contro le rivolte cattoliche in Irlanda: 12.000 inglesi assediarono nel settembre del 1649 la città-castello di Drogheda difesa da Arthur Aston che rifiutò di arrendersi. Il risultato fu il cannoneggiamento delle mura medievali e quasi 3.000 morti a fronte di “solamente” 150 perdite da parte inglese. Ma la vicenda di Drogheda è solamente uno degli episodi di recrudescenza anticattolica messa in atto da Cromwell: le chiese irlandesi vennero chiuse e fu obbligatorio solo professare l’anglicanesimo come culto religioso.
Più di tante altre nazioni, comunque, la Gran Bretagna ha sempre oscillato tra libertà civili e repressioni religiose e militari: sia nella madrepatria sia nella vastità dell’Impero, dal Canada all’India, facendo dell’Australia meta lontana dei forzati di lungo corso, così come avveniva per la Guyana se ci si riferisce alla Francia (si veda il bellissimo film “Papillon“, in merito).
La rivoluzione americana, fatta contro le tassazioni e le gabelle imposte ai coloni d’oltreoceano, estesasi moralmente e politicamente all’odio viscerale contro l’arroganza dell’aristocrazia inglese, è un passaggio storico che vede la Gran Bretagna costretta a fronteggiare dall’altra parte del mondo una coalizione europea pronta a sfidarla per il predominio sui mari e per l’assicurarsi un asse di scambio economico con il Nuovo Mondo.
La Gran Bretagna perde la guerra con i costituendi Stati Uniti d’America ma rimane, dopo otto anni di conflitto che coinvolge anche il Mediterraneo (essenzialmente nel 1781), la più grande potenza navale e marittima del mondo.
La grande storia dell’Inghilterra si arricchisce oggi di una nuova pagina scritta, fondamentalmente, su un nazionalismo tutto economico, che prende le distanze dal controllo che Bruxelles esercitava sul libero scambio delle merci, sui trattati commerciali internazionali e sulle relazioni intercontinentali che ne derivavano.
Nemmeno l’Euro è mai riuscito ad “invadere” il Regno Unito: la conservazione della Sterlina ha rappresentato non solo una richiesta di autonomia monetaria, finanziaria ed economica di un certo rilievo, ma anche un forte valore simbolico nella rivendicazione di una presa di distanza da una assuefazione pressoché totale con le regole comunitarie, con l’impianto di una Unione Europea fondata su un regime bancario che gestisce le crisi dei vari Stati piegandole agli interessi dell’asse di volta in volta egemone e più forte.
Da un lato è comprensibile il desiderio di recupero di una completa indipendenza statale su tutte le tematiche e i rapporti internazionali e sulla gestione complessa dei ritmi finanziari su cui si giocano i destini dei governi alla ricerca di quel tanto di sovranismo che sembra indispensabile oggi per vincere le elezioni.
Dall’altro lato, va osservato che lascia la UE non uno Stato di secondaria importanza per ricchezza economica e per influenze internazionali, ma una potenza cresciuta in mille anni di egemonia mondiale sui mari, che conserva un Commonwealth tutt’altro che irrilevante e che quindi priva Bruxelles di una finestra sul mondo globale, in un momento in cui gli Stati Uniti d’America si apprestano ad una nuova campagna Mediorientale nella contesa dell’area con l’Iran e in cui il gigante cinese è alle prese con una probabile crisi economica dovuta all’isolamento che le sta imponendo l’emergenza sanitaria del Coronavirus.
Non sarà facile per la Gran Bretagna rinegoziare tutte le clausole e i trattati bilaterali con l’Unione Europea nella seconda fase del divorzio appena consumatosi. Ma sarà indubbiamente molto più complicato per la UE mettere d’accordo tutti gli Stati che la compongono nel trovare un equilibrio che consenta di accorciare quanto più possibile un periodo di transizione che gli indici di borsa valuteranno in base alle prime mosse del liberismo inglese fuori dai vincoli cui fino ad oggi è stato, volente o nolente, legato.
Per cui la domanda cui bisogna rimanere aggrappati e sospesi nel vuoto è: da oggi è più solo il Regno Unito o è più sola l’Europa della BCE? La soluzione del quesito sarà pubblicata non sul prossimo numero, ma quando lo sapremo. Per ora il dilemma rimane.
MARCO SFERINI
1° febbraio 2020
Foto di Maret Hosemann da Pixabay