Professor Emiliano Brancaccio, lei è sempre stato molto critico con Mario Draghi. Non è sorpreso da un consenso così ampio per il suo governo anche a sinistra?
Questa nuova avventura di Draghi nel ruolo di premier viene presentata in base a una narrativa “tecno-keynesiana”: cioè l’idea che questa volta è diverso, che il tecnico è chiamato non a tagliare – come successo storicamente – ma a distribuire ingenti risorse. Questo contribuisce al consenso generalizzato. Ma su questa idea che Draghi incarni un’ottica di tipo keynesiano io ho molti dubbi.
Lei contesta il fatto che le risorse ci siano o che Draghi le distribuirà nella maniera migliore?
Io dico che il Recovery plan ha risorse modeste rispetto ad una crisi doppiamente più grave rispetto al 2011. Se infatti prendiamo i 209 miliardi che devono arrivare all’Italia, abbiamo 127 miliardi di prestiti che – in una ragionevole previsione sullo spread – non portano oltre un risparmio di 4 miliardi l’anno.
Per quanto riguarda gli 82 miliardi a fondo perduto il problema è la copertura del bilancio comune europeo che al momento è molto al di là da venire – c’è solo l’idea di una tassa sulla plastica – e quindi toccherà agli stessi stati membri coprire come di consueto in base al proprio Pil: ciò significa che l’Italia non pagherà meno di 40 miliardi.
Infine, va considerato che l’Italia anche nei prossimi anni sarà «contributore netto» dell’Ue per 20 miliardi. Dunque restano 22 miliardi netti, cioè meno di 4 miliardi netti all’anno. Insomma, tra risparmi sugli interessi e risorse a fondo perduto, saranno meno di 10 miliardi netti l’anno.
Se si considera che l’Italia ha visto distruggere 160 miliardi di Pil nel 2020, è chiaro che si tratta di risorse molto modeste. Per questo dico che il governo Draghi rischia di rivelarsi non troppo diverso dai vecchi governi “tecnici” dell’austerity.
Il consenso, anche dei sindacati, è basato sull’impegno al dialogo sociale. Però è vero che nessuno sa cosa pensa Mario Draghi ad esempio dello stop ai licenziamenti che scade a fine marzo…
Forse però qualcosa sappiamo. In questi giorni si fa molto riferimento al Draghi allievo di Federico Caffe. Certo, alla Bce è stato keynesiano – anche se non so se Alexis Tsipras sarebbe d’accordo – ma è sempre stato un assertore delle virtù selettive del mercato. E questo è confermato dall’ultimo documento ufficiale che ha redatto a metà dicembre da capo del comitato esecutivo del “gruppo dei 30”.
In quel documento non evoca le magnifiche sorti della politica keynesiana. Tutt’altro: dice esplicitamente che le “imprese zombie” devono essere liquidate e bisogna favorire il passaggio dei lavoratori alle imprese virtuose – quindi flessibilità del lavoro. Io la chiamo una visione da «distruttore creativo» perché il passaggio dei lavoratori in un momento di crisi è piuttosto fantasiosa e nella totale assenza di una pianificazione del cambiamento non sarà indolore. Insomma, Draghi sembra uno schumpeteriano – colui che definì «la distruzione creatrice» – in salsa liberista.
Questo farebbe il paio con l’idea di mantenere il Reddito di cittadinanza, magari puntando sulle mitiche politiche attive per ricollocarli.
In questa logica dell’affidarsi al meccanismi selettivi del mercato, il Reddito di cittadinanza – nella forma specifica di sussidio – ci sta bene perché crea un cuscinetto temporaneo. I pericoli grossi stanno altrove: temo sarà ostile al blocco dei licenziamenti così come temo che possa promuovere una riduzione della cassa integrazione, ridimensionata verso un sussidio di disoccupazione coerente con un liberismo temperato.
Stessa cosa per le pensioni? Quota 100 non ha funzionato ma a fine 2021 – grazie a Salvini – si torna alla Fornero con lo scalone.
Sulle pensioni gli interessi prevalenti spingono tuttora per ripristinare la previdenza complementare e portare i lavoratori sul mercato finanziario. Così come verso un aumento dell’età di pensionamento. L’unica verità è che bisognerebbe ripristinare una forma di fiscalizzazione degli oneri sociali: le pensioni future saranno così modeste che servirà un intervento fiscale oltre i contributi.
Maria Cecilia Guerra sul Manifesto ha sostenuto che ha una logica stare dentro il governo per condizionare le politiche che farà.
Io credo che questo tipo di “entrismo” sia sbagliato. I “tecnici” non fanno altro che accelerare la tendenza storica al depotenziamento delle istituzioni parlamentari e della esecutivizzazione del processo politico, concentrando nelle mani del governo il potere decisionale. Dubito fortemente che un’adesione, pur critica, possa condizionarne la linea.
Però è vero che gli esecutivi tecnici non sono mai durati molto: Ciampi 8 mesi, Monti 1 anno e mezzo. Gli si stacca la spina quando si capisce che fa cose sbagliate.
A maggior ragione meglio restare fuori. Anche perché quei governi sono durati poco ma hanno comportato cambiamenti di politica economica colossali, che ancora paghiamo.
Se le cose stanno così, quale prospettiva può avere la sinistra? Conflitto? Sciopero generale?
Per quanto duro sia questo periodo storico, bisogna rilanciare la lotta sociale. Non è possibile che gli unici in grado di mobilitarsi siano i rappresentanti degli interessi reazionari e piccolo borghesi. Serve che la classe subalterna si eserciti nuovamente nella lotta per il progresso sociale e civile.
MASSIMO FRANCHI
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