Una vicenda marginale, in apparenza un trascurabile dettaglio. La ministra Boschi, in tournée con il suo staff, gira il Sudamerica a spese del contribuente per fare il pieno di voti a favore del Sì nel referendum. A organizzarle claque e sfarzoso proscenio a Buenos Aires non è un amico di famiglia né un fan, ma l’ambasciatrice della Repubblica Italiana in Argentina, la signora Teresa Castaldo, da un annetto titolare del prestigioso incarico in un paese nel quale vivono circa 700mila «italiani all’estero» con diritto di voto.
Pochi si sono scandalizzati. Solo il manifesto ha dato risalto alla notizia degli ambasciatori embedded.
Eppure è sin troppo evidente lo sfregio (l’ennesimo) alla correttezza istituzionale, la violazione non soltanto delle regole non scritte della prassi, dello stile e del buon gusto – cure di altri tempi – ma anche dei doveri che i responsabili di funzioni pubbliche sono tenuti a onorare.
È il «nuovo che avanza», lo sappiamo. Questo slogan dilagò in Italia una ventina d’anni fa, fu il battistrada della resistibile ascesa della Lega di Bossi. E fu subito chiaro come quel presunto nuovo si sostanziasse in quanto di più arcaico e orribile si possa immaginare. Renzi e i suoi si sono fatti avanti con il motto equivalente della «rottamazione». Anche in questo caso la promessa del nuovo mascherava vizi pessimi e inveterati.
Le performances della ministra per le Riforme si sono sempre distinte per illimitata protervia e, diciamo, semplicità di ragionamento. Il comiziaccio argentino non ha fatto eccezione. Visto che l’abito istituzionale è soltanto un pretesto o un orpello (lo è in Italia, figuriamoci all’estero), non c’era motivo di andare troppo per il sottile. Il referendum è «decisivo», ha sentenziato Boschi: «Per avere un paese che funziona meglio abbiamo deciso di rivedere la nostra Costituzione». Dunque «potete decidere se cambiare il nostro Paese votando il Sì», tenendo bene a mente che «se perderemo questa opportunità non credo che molto velocemente ne arriverà un’altra».
Così disse l’alter ego del presidente del Consiglio. Del resto l’essenza del renzismo altro non è, al netto della retorica 2.0, se non una riedizione del feudalesimo democristiano. Lo stesso mix di demagogia e di patrimonialismo, la stessa cura zelante delle clientele, lo stesso disprezzo per l’equità e per la terzietà dell’informazione pubblica. Con, al cuore, il conclamato desiderio di semplificare i processi decisionali – quindi l’architettura costituzionale – in chiave autoritaria.
Di tutto questo e dei suoi perniciosi corollari abbiamo scritto più volte, inevitabilmente. Se ne potrebbe dedurre l’inutilità delle denunce, se non fosse che proprio il pacifico reiterarsi degli episodi di malcostume è di per sé un fatto politico di prima grandezza. E un segno che va interpretato.
Renzi, il renzismo, le donne e gli uomini del suo entourage sono, in questa fase, la calamità che affligge il paese, ma passeranno. Forse già il referendum ce ne libererà. C’è invece da temere che non si dissolverà altrettanto facilmente l’apatia radicata e generalizzata di tanti cittadini, di tanta parte della classe dirigente . Con Renzi e già via via con Berlusconi è come se il paese migliore si fosse rassegnato a uno spettacolo di fallimenti, di incapacità e di corruzione. Chiudendosi in sé e rinunciando nonché a combattere, persino a resistere.
Forse il male radicale dell’Italia oggi sta proprio qui, nell’abbandono e nel silenzio di quanti – di certo molti, benché dispersi – vedono e giudicano ma tacciono. Si astengono. È un silenzio che il malaffare politico naturalmente incoraggia e sfrutta. E che nessuna forza politica vuole, o sa, interpretare e trasformare in una forza per il riscatto di questo paese.
ALBERTO BURGIO
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