La vita e l’opera di Boris Pahor, scrittore e intellettuale triestino di solide radici slovene, ruotano intorno alla declinazione di alcuni paradigmi culturali e politici novecenteschi, del cui contraddittorio pluralismo, al limite dell’intrinseca conflittualità, è stato per molti aspetti una sorta di esegeta: identità, confine, appartenenza ma anche letteratura, testimonianza e ibridazione.
Di fatto, il corpo della sua scrittura ha dato sostanza e continuità ad una lunghissima riflessione sulla materia di cui sono fatte le relazioni interculturali, vivendo nella sua stessa persona (e quindi direttamente sul suo stesso modo di intendere la comunicazione letteraria), la compresenza di diverse matrici intellettuali.
Il suo sforzo personale, più che essere indirizzato ad una pedagogia del multiculturalismo, è stato semmai quello di evitare che la compresenza di molteplici appartenenze si risolvesse in una cristallizzazione ideologica falsamente unitaria, oppure in una frantumazione tra parti destinati a non comunicare tra di loro.
Tutto il corpus letterario di Pahor ci consegna questa costante esigenza di ricomposizione, trasposta in una scrittura densa ed eclettica, destinata a continuare a sfuggire a qualsiasi tentativo di classificazione unitaria e, ancor meno, univoca. La sua scomparsa, a 108 anni, sembra suggellare un’esistenza novecentesca all’insegna dell’antifascismo di confine, quello che più ha faticato nel tempo a trovare punti di sintesi, dovendo raccogliere in sé spinte tra di loro a volte anche antitetiche.
Nato nell’Impero austro-ungarico, testimone diretto, fin da bambino, della drammatica fascistizzazione delle terre orientali, a partire dall’incendio del Narodni dom di Trieste, ha dovuto a lungo conciliare in sé la preservazione dell’originaria radice slovena con l’italianizzazione forzata che accompagnò l’evoluzione di quei territori sotto il regime mussoliniano.
Il tema della violenza, sia istituzionale che civile, in tale frangente diventò ben presto un elemento distintivo delle sue riflessioni. Per Pahor il ricorso alla forza è il tratto distintivo di una società che non riesce a ricomporre, e a fare quindi coesistere, le diverse parti che la compongono. Così come lo è la tecnica dell’occultamento e dell’omologazione, usata per cancellare le tracce della molteplicità delle appartenenze di una terra che è sì anche di transizione ma, soprattutto, di antico radicamento.
Trieste, sua città natale nonché vero e proprio spazio urbano elettivo, era da lui vissuta in questi termini. Come anche Gorizia e Capodistria. La sua forte, robusta e pervicace identità slovena – tratto linguistico e culturale molto pronunciato, che in anni più recenti lo ha esposto all’accusa di essere proclive ad atteggiamenti nazionalisti – si incontrava anche con il cattolicesimo sociale, di taglio e declinazione personalista, del quale fu a suo modo un esponente, sia pure appartato, avendo intrapreso, tra gli altri, studi di teologia poi successivamente interrotti.
Questa coscienza irrisolta, che raccoglie tracce e segmenti di un crocevia di sensibilità, lo ha accompagnato, come una sorta di percorso interiore irrisolto, anche negli anni della Seconda guerra mondiale, quando maturò definitivamente il suo impegno politico antifascista, fino ad allora perlopiù espresso e confinato nell’attività letteraria illegale e con la partecipazione a cenacoli di intellettuali sloveni. Incorporato nel Regio esercito, dopo lo sfacelo dell’8 settembre 1943 entrò a fare parte dell’antifascismo triestino di estrazione slovena, adoperandosi clandestinamente contro l’occupante tedesco e il collaborazionismo italo-sloveno.
All’inizio del 1944, arrestato dalle milizie dei domobranci, quindi torturato dai nazisti, fu poi deportato in diversi campi di concentramento, tra i quali Natzweiler, Dachau e, infine, Bergen-Belsen. Sopravvisse miracolosamente, ritornando a Trieste solo nel dicembre del 1946, fortemente segnato nel corpo. La cosa non gli impedì tuttavia di riprendere la partecipazione alla vita pubblica, in una città divisa da spigolose contrapposizioni. Dopo la laurea in lettere, conseguita nel 1947, si dedicò quindi a coltivare la sue due radici più forti, l’impegno pubblicistico e la partecipazione all’associazionismo culturale sloveno.
In tale veste, continuando a rivendicare il suo cattolicesimo sociale anche come dimensione etica e civile, pur non assumendo posizioni rigidamente anticomuniste (altrimenti troppo compromesse con la presenza neofascista triestina) tuttavia indirizzò il suo lavoro a favore della dissidenza slovena contraria al regime di Tito. In questa prospettiva va letto anche il suo impegno di insegnante di lingua e letteratura sia slovena che italiana, compito che assolse nelle scuole di Trieste per più di vent’anni.
Questo insieme di funzioni lo resero naturale protagonista non solo della scena locale ma del più ampio movimento che cercava di animare la componente slovena non tanto come soggetto di «minoranza» bensì come anima identitaria dei territori giuliani e veneti. Il fatto che non concedesse alcunché all’autoritarismo di Belgrado lo rese da quasi subito inviso alle classi dirigenti jugoslave, subendone l’ostilità e l’ostracizzazione.
Anche per questo, tuttavia, risultò invece figura propulsiva nella crescita di una letteratura slovena di nuova matrice, slegata dagli obblighi di deferenza nei confronti di un regime sempre più ossificato e di un antifascismo internazionalista di mera circostanza. Negli anni Ottanta, la pubblicazione in Francia, e poi in Europa, del romanzo autobiografico Necropoli, il suo capolavoro espressivo dove racconta la sua prigionia nel lager di Natzweiler-Struthof, lo fece assurgere a figura di primo piano della letteratura continentale.
La qualità lirica del testo, con la sua densità espressiva, la trasfigurazione dei temi affrontati dalla realtà fattuale ad un’epica non estetizzante, hanno fatto sì che la sua scrittura sia stata accostata a quella di Šalamov, Levi, Amery, Solženicyn, Antelme. Durante e dopo il decennio delle crisi belliche jugoslave Pahor ha tuttavia faticato a tenere il passo di un’identità che non si trasfondesse anche nella rivendicazione di un particolarismo sloveno potenzialmente poco attento al complesso mosaico interculturale dei Balcani settentrionali.
Ne è testimonianza, al riguardo, la sua difficoltà a tematizzare l’infoibamento al di fuori degli schemi della mera contrapposizione politica, dove ha invece ingaggiato un confronto molto secco con la destra nazionalista italiana. Quel che resta di Pahor è comunque un lascito ancora da esplorare, avendo inteso Trieste e il «Nord-Est» come il trampolino dal quale tuffarsi nel mondo.
CLAUDIO VERCELLI
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