Al tramonto degli anni ’60, fu la «Nuova Sinistra» dei movimenti e dei gruppi extraparlamentari a coniare per il massacro del 12 dicembre 1969 di Piazza Fontana a Milano l’espressione «strage di Stato» (che dette il titolo ad un diffusissimo pamphlet della «controinformazione»).
Con questa formula si volevano indicare nelle responsabilità degli ambienti conservatori e reazionari della politica, degli apparati di sicurezza, di settori non marginali delle classi imprenditoriali e proprietarie italiane – come scrisse nella sua invettiva Pier Paolo Pasolini -, la radice d’origine di un eccidio che si proponeva essere, attraverso l’azione delle cellule eversive neofasciste di Ordine Nuovo e l’opera di protezione e depistaggio dei vertici dei servizi segreti, un’operazione psicologica finalizzata a mutare in senso regressivo gli equilibri sociali scossi dal movimento studentesco del 1968 e soprattutto dall’autunno caldo operaio del 1969.
All’alba degli anni ’80, in un contesto completamente mutato sul piano sociale e politico, venne compiuta dal gruppo eversivo dei Nar la strage del 2 agosto alla stazione di Bologna, per la quale sono stati condannati in via definitiva i neofascisti Vario Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini ed ora, al termine del processo di primo grado, Gilberto Cavallini.
L’elemento di rilievo che emerge dalle duemila pagine di motivazioni della sentenza, emessa contro Cavallini nel gennaio 2020 e poi pubblicata nel 2021, è senz’altro rappresentato dal fatto che non più l’estrema sinistra ma la magistratura italiana scrive, nero su bianco, che «si è trattato di una strage politica o, più esattamente, di una strage di Stato». Il senso di tale asserzione, scrive la Corte d’Assise di Bologna, «si comprende in maniera già esaustiva e incontestabile dai depistaggi che vi sono stati, soprattutto quello consacrato nelle condanne definitive emesse a carico di Gelli, Musumeci, Belmonte, Pazienza» ovvero i massimi vertici della loggia P2 e dei servizi segreti militari del Sismi che operarono di concerto per sviare le indagini.
Il punto di rilievo, più ancora che giudiziario, appare di natura storico-politica ed è rappresentato dalla progressiva convergenza di lettura del fenomeno dello stragismo in Italia che, ad oltre mezzo secolo dal suo manifestarsi, ha trovato prima nelle parole del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella a Milano nel 2019, in occasione del cinquantesimo anniversario della strage di Piazza Fontana, e poi nella sentenza di primo grado della Corte d’Assise di Bologna, una sua definizione nel discorso pubblico ufficiale.
Si ricolloca nel contesto dell’Italia della Guerra Fredda, della divisione bipolare del mondo e del sistema politico nazionale, un fenomeno che non ha avuto eguali nell’Europa liberale. Una torsione di carattere paramilitare del conflitto politico in uno Stato democratico che ha occupato per oltre un decennio lo spazio pubblico, coinvolgendo i massimi vertici degli apparati militari e con essi, inscindibilmente, la classe dirigente politica ed economica del Paese. Viene sancita ed esplicitata una cesura rispetto a narrazioni che per decenni hanno tentato di figurare da un lato presunte istanze «spontaneiste» dell’eversione di destra e dall’altro contestuali «deviazioni» dei servizi di sicurezza a fronte di un corpo sano di quegli stessi apparati. L’osmotica relazione tra questi due ambiti traeva, in occidente, la sua radice di fondo nella ragion di Stato anticomunista italiana e internazionale. E «di Stato» furono di conseguenza le stragi.
Nel corso del processo che si sta svolgendo a ritmo serrato a Bologna sono emerse da un lato nuove evidenze (in rapporto alle relazioni tra uomini dello Stato, esponenti dell’eversione e neofascisti) che confermano la necessità di una lettura non «episodica» e nemmeno disconnessa dei fatti di strage susseguitisi in Italia, e dall’altro fatti nuovi che chiamano in causa l’operato degli apparati di allora e di quelli di oggi soprattutto in relazione alla figura di Paolo Bellini, il principale imputato del nuovo processo che è stato riconosciuto nel luglio scorso dalla moglie come l’uomo immortalato da un fermo immagine di un video alla stazione di Bologna girato pochi minuti dopo l’esplosione. Lo stesso Paolo Bellini, già reo confesso dell’omicidio del militante di Lotta Continua Alceste Campanile, fu successivamente ingaggiato dai Ros dei carabinieri guidato da Mario Mori per operazioni coperte in Sicilia negli anni delle stragi di mafia del 1992-1993.
La ricostruzione di tali vicende, a 41 anni dalla strage di Bologna, richiama la necessità di una lettura senza omissioni del passato come unica chiave di comprensione del presente in grado di trasmettere nella società contemporanea le ragioni di fondo di una vicenda tanto complessa come quella della nostra democrazia repubblicana sintetizzata, quest’anno per l’ultima volta prima della fine del suo mandato al Quirinale, dalla presenza di un Presidente delle Repubblica che renderà omaggio ai parenti delle vittime essendo lui stesso fratello di una vittima del terrorismo.
Un’immagine potente e probabilmente unica che rappresenta con efficacia semantica, più di mille voci retoriche, la necessità di offrire un senso storico a ciò che è «Stato».
TOMMASO DI FRANCESCO
foto: screenshot