La mala tradizione politica italiana prevede, tra l’altro, che gli strumenti dati dai Costituenti per riformare popolarmente le azioni legislative, abrogandole in parte o in tutto, siano ostinatamente sottoposti ad una alterazione delle funzioni date, in virtù, essenzialmente, di un gioco politico tutto di parte che, dunque, sfugge al principio dettato dalla Carta del 1948 e che, per conseguenza, la deformazione tanto della causa quanto dell’effetto che ad essa viene fatto produrre.
Stiamo parlando proprio dell’istituto referendario, della chiamata al popolo affinché si esprima su una proposta indubbiamente politica ma che dovrebbe fondamentalmente riguardare la correzione di norme che il Parlamento non riesce a concretizzare o che, per la loro specificità, necessitano di un passaggio di condivisione larga, di una valutazione che dalla rappresentanza delegata passi ala verifica dei deleganti stessi.
La Costituzione, come è noto, prevede solamente referendum popolari abrogativi, così da consentire alle Camere e a tutte le altre istituzioni che hanno funzione legiferante di poter esercitare questi poteri nella più ampia autonomia e nel più ampio spettro possibile di tematiche inerenti la vita dell’intero Paese.
Dunque, nonostante la stessa iniziativa referendaria possa partire in prima istanza da mezzo milione di cittadini che godono dei diritti politici, le forze politiche, col passare del tempo, se ne sono sempre più appropriate. Nel nome del popolo, si intende. E ne hanno abusato ripetutamente per svilire il potere legislativo, per ostacolare l’applicazione di norme volute dal Parlamento e, quindi, per proporre ai cittadini di inficiare quella stessa delega che viene data a deputati e senatori al momento del voto per le elezioni politiche.
Il numero di referendum proposti di volta in volta (si è arrivati più volte vicino alla decina e qualche volta si è oltrepassato oscenamente questo limite di rispetto nei confronti dell’intelleggibilità della persone…) associato alla difficoltà dei quesiti che vertono su materie prevalentemente tecniche, perché non possono proporre un tema ma solo sforbiciarlo per arrivare allo scopo che i promotori si prefiggono, hanno reso lo strumento della consultazione referendaria un richiamo di scarsa importanza, incapace di suscitare grandi sussulti, dibattiti divisivi come invece un tempo avveniva su temi dirimenti come l’aborto o il divorzio.
La partecipazione popolare era, di per sé stessa, espressione di un vero assemblearismo nazionale che coinvolgeva in grandi operazioni di dialettica sociale non solo tutto il corpo elettorale chiamato a votare, ma l’intero Paese.
Noi, oggi, spacciamo per scelta democratica – che comunque lo rimane, come avrebbe detto Totò, a prescindere – la diserzione delle urne e, nel mettere in pratica questa opzione, ci escludiamo anche dalla conoscenza dei quesiti, ritenuti boiocottabili in assoluto, per far mancare il quorum e per evitarci anche la grana di dover sapere quale scheda corrisponde a cosa, chi li ha proposti e perché.
Dunque, quello che appare come un regolare esercizio delle proprie funzioni di cittadino, della propria sovranità – quella sovranità popolare che nello strumento referendario trova forse la sua più diretta espressione, visto che non delega nessuno, ma si manifesta inequivocabilmente con una scelta netta e risoluta – è invece una sconfitta della democrazia repubblicana perché alimenta la disaffezione popolare nei confronti delle istituzioni e della Costituzione stessa: il principio di appello al popolo per dirimere questioni di grande importanza nazionale, sociale, civile e morale, viene vilipeso, mortificato a causa di un abuso che se ne fa. Ormai da troppo tempo.
Verrebbe invece salvaguardato anche il diritto a far mancare il quorum, nel caso in cui tutti, ma proprio tutti, fossero mossi a questa scelta almeno da una conoscenza coscienziosa dei temi trattati, quindi da un senso civico che rispondesse con piena consapevolezza alla chiamata al voto con un diniego non menefreghista, ma aderente ad un presupposto politico, ad una chiara volontà uguale e contraria a quella dei proponenti i quesiti.
Anche io sceglierò, con tutta probabilità di non votare. Ma lo farò solamente dopo aver valutato la percentuale di partecipanti alle cinque consultazioni. Se si sarà vicini ad un possibile raggiungimento del quorum, allora voterò e convintamente metterò cinque croci sul NO.
Quella che viene definita una “riforma della giustizia” è, in realtà, la cancellazione di una serie di norme che, pur lacunose e meglio riscrivibili, tutelano i diritti tanto degli imputati quanto dei magistrati e preservano un minimo di correttezza nei rapporti tra le istituzioni e il potere giudiziario.
Entrare nel merito dei quesiti richiederebbe molto tempo [qui il collegamento ad una scheda per chi vuole realmente approfondire quesito per quesito], anche se sarebbe molto utile poterlo fare proprio per battere quella infelice abitudine a trascurare tutto il trascurabile, a fare spallucce quando ci sembra che una problematica sia troppo incomprensibile per essere resa facilmente con uno slogan, con una frase, con pochi concetti che, quindi, rispettino la velocità con cui ogni giorno la nostra vita si svolge.
Quello che premeva sottolineare in queste poche righe era l’ulteriore colpo inferto ad un impianto democratico troppo spesso accusato di inefficacia, di inefficienza e di scarsa aderenza alle necessità di tutti i cittadini. Non è da oggi che la Repubblica è sotto attacco: almeno quella parlamentarmente intesa, quella costituzionalmente intesa e prevista. I tentativi di trasformarla in un presidenzialismo pasticciato tutto all’italiana non si sono ancora esauriti.
Se al governo del Paese dovesse andare quella destra che, ormai, ha molto poco del centro, così come il centrosinistra ha molto poco della sinistra, e se la trazione fosse del partito più presidenzialista in assoluto, ossia Fratelli d’Italia, che eredita la peggiore incultura politica tanto del fascista MSI quanto del sovranismo moderno, allora ci troveremo ad affrontare una nuova lotta per preservare le funzioni centrali del Parlamento in seno alla Repubblica e per evitare che il Palazzo Chigi e il Quirinale siano stretti in un connubio che rimescolerebbe l’equilibrio dei poteri e ne annullerebbe l’attuale – seppure malconcia – equipollenza.
Il diritto di voto, anche quando non viene esercitato, dovrebbe essere preservato nonostante le evidenti contraddizioni e gli sconquassi immorali di un privatismo della politica che ha portato tanto nocumento al pubblico e agli interessi popolari. E qui, per interessi popolari, si intenda gli interessi di quelle fasce di popolazione che hanno per prime sempre patito le ripercussioni di politiche di attacco ai diritti fondamentali del lavoro, dell’istruzione, della previdenza e della salute gratuiti o almeno garantiti per tutte e tutti.
La giustizia che immaginano i presidenti di regione cui Radicali e Lega hanno demandato, alla fine, il proponimento dei referendum, è un disegno che inserisce non nel perimetro rassicurante di una amplificazione dei princìpi garantisti ma, purtroppo, in un quadro di tutela di interessi molto particolari, per limitare il mandato magistratuale, per inibire il potere dell’accusa e anche le ragioni e i diritti della difesa e per fare del carcere non un luogo dove entrino meno poveracci possibili, incapaci e impossibilitati a difendersi con nugoli di avvocati di grido, ma dal quale ne siano preservati proprio quelli che possono e vogliono farla franca.
In barba al diritto italiano, alla Legge, al Parlamento e agli elettori – cittadini. I referendum vanno bocciati. Senza se e senza ma. Il modo con cui farlo, sceglietelo liberamente il 12 di giugno. Con conoscenza e con coscienza. Facciamo ripartire da noi stessi la salvaguardia della democrazia e della Repubblica.
MARCO SFERINI
7 giugno 2022
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