Parla Londra, trasmettiamo dei messaggi speciali…
Potrebbe essere questo l’incipit di una giornata, quella del 23 giugno 2016, che nel bene e nel male cambierà la storia del nostro continente per gli anni immediatamente a venire.
Sono bastate poche ore per avere un terremoto politico. Chi, come il sottoscritto, ha lasciato l’ipotetico risultato della consultazione britannica con il remain in testa, si è ritrovato la mattina successiva con la vittoria finale del leave: uno stato sovrano che decide di lasciare l’Unione Europea. Situazione del tutto inaspettata, tanto che persino i mercati internazionali erano pronti a scommettere sulla permanenza del Regno Unito. Eppure la maggioranza dei 33 milioni di cittadini che si è recata alle urne ha dato un segnale chiarissimo, che deve essere analizzato sotto molti aspetti e non semplicemente con la vittoria dei populisti e delle destre xenofobe.
Non è facile prevedere quali saranno le ripercussioni sull’economia reale dei 27 paesi aderenti alla comunità europea, la quale perde per strada la seconda potenza economica dell’area, anche se in queste ore tutti gli analisti sono preoccupati esclusivamente delle reazioni delle borse e dei mercati speculativi.
Gli svantaggi immediati per il Regno Unito sono stati ben visibili attraverso la svalutazione di circa l’8% della sterlina e non si può negare che ciò andrà a sfavore delle classi più disagiate della società britannica. I due anni che serviranno per negoziare l’uscita potrebbero rivelarsi molto complessi, in quanto sarà necessario porre attenzione a un’infinità di dettagli accumulati in quarant’anni di permanenza nel contesto comunitario europeo.
L’altro aspetto che rischia di affermarsi come conseguenza della Brexit è la ferita gravissima riportata sul futuro del Regno Unito. La Scozia e l’Irlanda del Nord (così come le città più grandi dell’Inghilterra) hanno espresso un voto europeista, il resto dell’isola si è espressa per l’uscita, creando così una problematica che potrebbe rivelarsi pericolosa per le sorti del Regno. La prima reazione del primo ministro scozzese Nicola Sturgeon è stata quella di mettere sul tavolo una proposta di nuovo referendum per l’indipendenza della Scozia e l’adesione all’UE.
Nonostante la secca sconfitta nel referendum del 2014 (e uno dei fattori importanti fu proprio la questione europea), lo Scottish National Party comincerà a mettere sul tavolo una richiesta di una consultazione se rimanere, o quanto meno per rinegoziare ulteriormente, nel regno di Elisabetta II. Difficile prevedere se il governo di Londra concederà nuovamente di andare alle urne. Diverso, ma altrettanto delicato è il discorso di Belfast.
A poche ore di distanza dal risultato definitivo, il vice premier Martin McGuinness, storico leader del Sinn Féin, ha lanciato la proposta di un referendum per chiedere la riunificazione di Belfast con il governo di Dublino. La proposta di per se è molto importante, e in qualche modo potrebbe mettere fine ad una questione storica molto complessa. La necessità è che non nascano nuovamente delle frizioni tra i nazionalisti irlandesi e gli unionisti dopo circa 20 anni di pace.
Il risultato va rispettato, e nel suo complesso il referendum è stata una prova di democrazia interna, dove un popolo ha scelto in maniera sovrana il suo destino nell’immediato futuro. A differenza di quanto detto recentemente da Mario Monti e da Giorgio Napolitano, la scelta della consultazione è stata coraggiosa da parte del premier David Cameron, il quale in maniera onesta ha già rassegnato le dimissioni, probabilmente a favore del vero vincitore di questa partita, l’ex sindaco di Londra e conservatore Boris Johnson.
Ma gli elementi interessanti del voto sono ulteriormente due: la frattura generazionale della società britannica e la frattura tra centro e periferia. Nel primo caso se 3 giovani su 4 hanno votato per la permanenza nell’UE, le persone dai 65 anni in su hanno votato a larghissima maggioranza per l’uscita. Esiste quindi una visione del futuro dei più giovani che viene ipotecata e, in qualche modo schiacciata dalle incertezze presenti dei più anziani, creando delle problematiche non da poco.
Altrettanto chiara è la configurazione geografica della volontà sulla Brexit: se la City, e le altre città importanti di Inghilterra e Galles si sono espresse per il remain, le zone rurali hanno scelto in maniera compatta per il leave, mettendo in evidenza la frattura centro-periferia e la necessità per Londra di ritornare a comunicare maggiormente con il resto del paese.
E l’Unione? Indubbiamente per i burocrati e i tecnocrati di Bruxelles e Strasburgo la Brexit rappresenta un campanello d’allarme difficile da ignorare, nonché un gravissimo precedente per le sorti future della cosiddetta fortezza Europa. La Gran Bretagna in questi due anni ha dato prova di sapere ancora, almeno minimamente, cos’è la democrazia, prima con la consultazione scozzese e ora con la scelta o meno sulla Brexit. Altri paesi potrebbero essere tentati di fare altrettante operazioni referendarie sulla permanenza, soprattutto tra coloro che risentono maggiormente la crisi economica mondiale e il rigore imposto dalla commissione europea e dalla BCE.
L’auspicio è che il nostro continente rimanga unito; le sfide che si presentano all’orizzonte non consentono un ritorno agli Stati nazionali e alla loro totale autosufficienza. In questi 70 anni di storia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, l’Europa ha intrapreso una strada che le ha permesso di superare i nazionalismi e i revanscismi che, insieme agli interessi economici, nel giro di due decenni avevano prodotto due conflitti spaventosi.
Fino ad oggi. I movimenti nazionalisti e populisti tornano a spingere per la disgregazione del continente europeo perché qualcuno ha creato tali condizioni. Questa non è l’Europa dei popoli che sognava Altiero Spinelli, e se un paese molto autonomo dalle direttive di Bruxelles come il Regno Unito ha deciso di uscire dalla comunità economica, quale sarà l’opinione in merito del popolo ellenico che ha subito la più pesanti delle umiliazioni dalla Troika, o degli altri paesi che vedono la loro politica seguire scrupolosamente l’agenda della BCE?
Il voto irlandese di febbraio, passato nel silenzio più totale, ha dato un netto segnale di bocciatura della politica del rigore imposta dalla Troika. E allo stesso modo questa voglia di protesta e di cambiamento, anche nazionalista, si espande in tutto il vecchio continente.
Un’intera generazione cominciava, tra tante fatiche e ostacoli ancora da superare, a vedere una fragile identità europea. Ora quel sogno appare in declino, sulla via del tramonto o addirittura infranto. Perché l’Europa dei popoli, dell’unità di diverse culture con un minimo comune denominatore, della solidarietà economica e dell’agire politico unitario, è stata schiacciata dall’Unione delle elité e dei tecnocrati; un’Europa a trazione tedesca (e dei paesi del Nord) e nelle mani di gruppi finanziari e bancari che si nascondono dietro la Troika per spremere i paesi aderenti delle loro ricchezze.
E’ l’Europa del rigore, del TTIP negoziato in gran segreto con gli USA, e che solo apparentemente, a Brexit compiuta, spende parole per rilanciare l’aggregazione creando una sorta di federazione dei popoli. Ma a differenza del manifesto di Ventotene, questa ha solo l’obiettivo dell’interesse di pochi su centinaia di milioni di cittadini.
Un’Altra Europa, come aveva richiesto la sinistra continentale alle elezioni del 2014, deve prendere campo e cambiare radicalmente la rotta intrapresa. Se così non fosse, i motivi per rimanere all’interno dell’UE sarebbero davvero ben pochi. Per evitare questo, sarà necessario nel più breve tempo possibile porre le basi per una sinistra continentale che provi, attraverso nuove politiche economiche e sociali, a salvare e soprattutto realizzare quel sogno chiamato Europa.
FABRIZIO FERRARO
redazionale
25 giugno 2016
foto tratta da Pixabay