L’ultimo grave naufragio nel canale di Sicilia, con quarantuno morti dopo i novanta dello scorso fine settimana, è l’ennesima prova di inadeguatezza del sistema dei soccorsi. Il gran numero di interventi in mare e di sbarchi a Lampedusa tradisce l’assenza di una visione realistica delle cose: non soltanto si sono moltiplicati gli arrivi rispetto a quelli dello scorso anno, ma lo Stato fa costante ricorso all’intervento delle navi Ong.

Eppure continua ad additarle come fattore di attrazione e le accusa perfino di complicità con i trafficanti, penalizzando la loro attività operativa o addirittura punendole. Nonostante i moltiplicati sforzi della Guardia Costiera e della Guardia di Finanza, fino alle loro estreme possibilità operative, continua il silenzio imbarazzato del governo. Che appare impegnato soprattutto a svuotare in continuazione l’hotspot di Lampedusa, dove anche le istituzioni locali sono portate allo stremo per riuscire a garantire la continuità delle operazioni.

Gli accordi con la Libia e la Tunisia non hanno cambiato una situazione che, se mai, risulta aggravata. Per il crescente numero di morti in mare: oltre 1.800 dall’inizio dell’anno, secondo le stime dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), fra loro moltissimi bambini, e una quantità imprecisata di dispersi. Mentre continuano le denunce delle efferatezze sistematicamente compiute da quei Paesi nei confronti dei migranti, nei propri territori e in mare, dove le rispettive milizie esercitano non il soccorso, ma spregevoli inseguimenti.

Se crediamo veramente in una politica marittima che veda in primo piano il rispetto dei diritti e la qualità dei rapporti diplomatici, dobbiamo finalmente abbandonare la logica delle frontiere, mai invalicabili dalla disperazione, né commissionare ad altri il lavoro sporco di chi asseconda le partenze fingendo, poi, di volerle ostacolare.

Tale strategia produce morti invisibili e propaga nella nostra società veleno e sempre maggiore indifferenza, colpendo un impegno nei soccorsi che, per quanto generoso, risulta incoerente e induce a gravi errori – come sappiamo essere accaduto a Cutro.
Porta anche a vere e proprie vessazioni, come nel caso della nave Geo Barents. Martedì scorso ha recuperato quarantasette migranti alla deriva da sei giorni con un complicata azione di salvataggio, durante la quale tre persone sono cadute in mare e una è rimasta dispersa.

Dopodiché la nave si è vista assegnare il porto di La Spezia. Così quei naufraghi, dopo aver sofferto il mare grosso e la paura, stanno ancora percorrendo un ulteriore viaggio di quattro giorni, prima di poter toccare terra.

È urgente e necessario, dunque, che si aprano corridoi umanitari. E laddove questi dovessero rendersi subito di difficile percorrenza, che si apprestino nel frattempo adeguati dispositivi di soccorso in mare. Ma anche di accoglienza.

Non si capisce, ad esempio, come mai non siano dislocate a Lampedusa e nei porti del canale di Sicilia le unità di altura della Guardia Costiera, raramente operative in questi soccorsi, e non si vede perché non si affronti l’emergenza con tutte le risorse disponibili: i grandi porti del Sud e il volontariato organizzato secondo un rigoroso coordinamento dello Stato.

Sono questi passi da compiere subito perché possa parlarsi di un ruolo forte dell’Italia nel nostro mare. Nel segno della civiltà e della comprensione di un fenomeno che non chiama in causa soltanto i buoni sentimenti, ma secoli di civiltà marinara oltre che una grande sedimentazione di esperienze e di regole.

VITTORIO ALESSANDRO
Ammiraglio in congedo ed ex portavoce della Guardia Costiera

da il manifesto.it

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