Quando, un mese fa, è iniziata tardivamente la “corsa al Colle“, era un po’ comune l’impressione che la successione a Mattarella non sarebbe stata la riconferma del Presidente in carica. Dalla conferenza stampa di fine anno del Presidente del Consiglio e dalle dichiarazioni del leader di Forza Italia, sembrava certo che, tra gli altri nomi che giravano e imperversavano, due sarebbero stati quelli attorno a cui si sarebbe concentrata la tenzone: Mario Draghi per il campo cosiddetto “progressista” e per larga parte del centro, Silvio Berlusconi per il centrodestra.
Non era una lettura sempliciotta del quadro politico che si andava definendo sul piano istituzionale. Erano i fatti. Poi, a metà gennaio, imperversante sempre la pandemia, prolungato lo stato di emergenza a fine marzo e con le scadenze economiche sempre più impellenti, lo spettro della crisi di governo, a seguito di una elezione del Capo dello Stato che avesse lacerato la maggioranza parlamentare, ha rimescolato le carte: il timore delle elezioni anticipate non era vissuto come tale solo da Giorgia Meloni e in parte dai grillini.
Per tutte le altre forze politiche, anche la sola ipotesi del voto nel bel mezzo della distribuzione obbligata dei fondi del PNRR elargiti malevolmente dall’Europa dei banchieri era e sarebbe rimasta un vero fumo negli occhi, uno spauracchio da allontanare in qualunque modo possibile.
Accantonata l’autocandidatura di Berlusconi, che ha tenuto banco per settimane e ha ingessato e ipotecato pesantemente il dibattito politico sul nuovo inquilino del Quirinale, l’ipotesi Draghi era l’unica rimasta oggettivamente presente sulla scena. Ma indebolita, infiacchita da un logorio della vita moderna di una dialettica parlamentare tutt’altro che costruttiva e volta a ricercare una sintesi su un nome o, almeno, su una rosa di nomi.
La mancanza di una visione di lungo corso da parte dei partiti e dei movimenti ha gravato sul respiro dell’esecutivo che ha iniziato ad avere il fiato corto, l’orizzonte ristretto e le aspettative sempre meno numerose e certe dopo la famosa conferenza di fine anno di Draghi, quando l’ex banchiere della BCE, nel “mettersi a disposizione delle istituzioni e del Paese“, dichiarò che il governo poteva, anche senza di lui, proseguire esattamente nella direzione che si era dato.
L’ipoteca era firmata. Il governo veniva lasciato in un limbo di inefficacia e di colpevole latenza, quanto meno fino all’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. E così, infatti, è stato: soltanto nelle ultime ore, dopo la rielezione di Sergio Mattarella al Colle, Draghi è rientrato psico-politicamente nel pieno delle sue funzioni. Diciamo pure che vi si è ricollocato lui medesimo, senza il bisogno di iniezioni di ottimismo da parte dei segretari e leader dei partiti che escono con le ossa rotte dalla partita del Quirinale.
In questo scenario complicato, Mattarella aveva consegnato a tutta la popolazione un messaggio chiaro e netto: voglio che la Costituzione sia pienamente rispettata e che non si ripetano eccezioni come quella di Napolitano. Il mandato del Presidente della Repubblica doveva, dunque, essere ricompreso nella tradizionale consuetudine di una interpretazione letterale della Costituzione: se resta in carica sette anni, resta in carica “solo” sette anni e non di più. Per rispondere al principio dell’evitamento del consolidamento eccessivo tra persona e carica, ribadendo molto giacobinamente una integerrimità encomiabile nel preservare la Repubblica da qualunque tentativo di distorsione dell’equilibrio dei poteri e tra i poteri stessi.
Sarebbe stato davvero un bell’esempio morale, civile, civico e, pertanto, assolutamente e pienamente politico, se la risolutezza di Mattarella non fosse stata messa in discussione dall’incapacità manifesta della cosiddetta “classe dirigente” nel gestire la corsa al Colle investendone prima di tutto il Parlamento e non lasciandolo da solo ad attendere che si fermasse la giostra impazzita dei nomi: Salvini sostiene di averne fatti ben 22. Se contiamo anche tutti gli altri, in meno di una settimana si sono ipotizzati circa una cinquantina di “quirinabili“.
Così il Parlamento ha, in parte, agito per conto proprio e si è lasciato guidare fino ad un certo punto dalle direttive dei segretari e delle segreterie di partito. Anche questo è un sintomo di un declino irreversibile di un modello politico che non ha, al momento, una sostituzione democratica all’altezza della situazione.
Ogni ipotesi di riforma istituzionale e di rapporto proprio tra le istituzioni e i cittadini sembra scartare la complessità del bilanciamento dei poteri e preferire la prevalenza di uno di questi sugli altri. Per avere una Repubblica meno chiassosa, meno litigiosa, più stabile e accondiscendente alle aspettative dei mercati, dell’Europa e anche degli alleati della NATO che si preparano alla guerra nel nuovo teatro degli interessi geopolitici che è divenuta la regione ucraina e del Donbass.
Se già prima della settimana appena trascorsa si prendeva in considerazione una serie di riforme in senso presidenzialista, si può stare certi che già da oggi Meloni, Renzi e altri fautori del potenziamento del ruolo del governo e di quello del Capo dello Stato, riproporranno a gran voce l’elezione diretta dello stesso da parte dei cittadini e non invece un ritorno alla legge elettorale proporzionale che era la naturale traduzione in pratica della formulazione della delega parlamentare attraverso il voto: un voto libero, uguale per l’elettorato attivo e passivo, senza premi di maggioranza, senza privilegi da un lato e penalizzazioni dall’altro.
Quando col “Mattarellum” e con i referendum di Mariotto Segni si pretese di dare all’Italia una “democrazia dell’alternanza“, proiettandola nella modernità politica di un’Europa che veleggiava verso gli standard liberisti del nuovo millennio che, per l’appunto, esigevano quel tipo di cambiamento veramente radicale, si iniziò a spostare lentamente la barra della centralità istituzionale dal parlamento all’esecutivo e, al contempo, verso la Presidenza della Repubblica.
Per cui si abbandonava la considerazione, veramente limitante, del Quirinale come sede notarile dello Stato e giudice di pace tra le varie controversie istituzionali, e si affidava al Capo dello Stato una fisionomia autorevole ma non autoritaria.
Un salto di qualità (negativamente parlando, si intende) fu ulteriormente fatto in questa direzione con la presidenza di Giorgio Napolitano e con quell’abdicazione del Parlamento alle sue proprie funzioni e l’andare col cappello in mano a chiedere al Colle di salvare la situazione, davanti alla totale impotenza di una classe dirigente che, dando a Cesare quel che è di Cesare, era un tantino meno sprovveduta di quella odierna.
Un altro salto di qualità è stato fatto ieri, con l’involuzione dell’eccezione che confermava la regola non apertamente scritta del settannato non ripetibile in una consuetudine. E, si sa, le abitudini sono dure a morire, perché noi esseri umani siamo abitudinari per natura e lo diventiamo per necessità e, ancora di più, per trasformistico opportunismo nei campi più disparati e, fra questi, primo fra tutti quello della politique politicienne.
Si può essere certi che Sergio Mattarella avesse in animo di rispettare il dettame che si era dato: di concludere il 3 febbraio 2022 il suo mandato e di osservare e partecipare alla vita politica del Paese da senatore a vita, preservando così la Costituzione da un ulteriore forzatura, costringendo in qualche modo i partiti a prendersi le loro responsabilità e il Parlamento a fare una scelta politico-istituzionale che impegnasse tutta la Repubblica ad uno sforzo di adattamento ai tempi, ai modi e alle necessità dei mutamenti in corso. Va riconosciuto al Presidente questo mettersi in disparte, di lato, attendendo le decisioni di una classe politica che non ha saputo decidere perché, prima di tutto, ha preteso di stabilire, di imporsi piuttosto che di proporsi.
Il dialogo parlamentare, seppure non visivamente ricercabile nell’aula semivuota a causa delle procedure anti-Covid, è stato in questi giorni molto più energico e fruttuoso degli incontri bilaterali tra i partiti. Questo non significa che i grandi elettori abbiano trovato da soli la strada da seguire, ma è abbastanza evidente che una certa autonomia l’hanno cercata e se la sono presa, costringendo soprattutto Salvini e Conte a fare dei passi indietro, a rimangiarsi delle candidature e a bruciarne clamorosamente altre.
Se Enrico Letta ha giocato questa partita per lacerare il centrodestra e, alla fine, rimettere al centro il bis di Mattarella e la stabilità del governo liberista draghiano, lo ha fatto con una buona dose di cinismo ed anche con una punta di malizia, arrivando alla fine ad ottenere ciò che si era prefissato. Ma se, invece, i giochi sono sfuggiti di mano un po’ a tutte e tutti, allora all’abilità politica si sostituisce praticamente una casualità che, pure, non può essere completamente astratta dalle contingenze e dai fatti che si sono velocissimamente succeduti nella ore appena passate.
Sia come sia, dopo Salvini e il centrodestra, l’ammaccatura più consistente è per quella centralità parlamentare che solo apparentemente si rinvigorisce e si mantiene in salute in mezzo a questo subbuglio intra e interpartitico. Purtroppo i contorni dello scenario sono tali da favorire i sostenitori del presidenzialismo: con il dimezzamento del numero dei parlamentari voluto dai Cinquestelle e sostenuto anche dal PD, il rischio di far precipitare la Repubblica in una torsione più che autorevole, veramente autoritaria, non è poi così molto lontano.
Mario Draghi, in questo primo anno di governo, si è relazionato col Parlamento sovrapponendo il ruolo dell’esecutivo alle prerogative delle Camere: altri DPCM per l’emergenza pandemica, ben 35 voti di fiducia in 11 mesi… Sono segnali tutt’altro che rassicurati circa le intenzioni del Presidente del Consiglio.
Alcuni commentatori si rassegnano ad affermare che sarebbe potuta andare peggio: se Draghi fosse andato al Quirinale avrebbe portato con sé questo dirigismo esecutivo al Colle e avrebbe sovrainteso l’azione di governo dalla più alta istituzione dello Stato, mettendo praticamente in essere un (semi)presidenzialismo non si sa bene quanto preterintenzionale. La rielezione di Mattarella ci preserva da questi scenari e, probabilmente, è il “male minore“.
Resta il fatto che, fedele prima di tutto allo spirito che i Costituenti vollero immettere nella Carta fondante la Repubblica, Mattarella avrebbe fatto meglio, ma molto meglio a rifiutare un secondo mandato, ristabilendo quella regola non scritta del settennato irripetibile e, più che mostrare un puntiglio, dimostrare che si può essere coerenti fino in fondo. Per il bene veramente del Paese, per dare un esempio altamente morale, per cui non può esservi nessuna condizione nuova, nessuna emergenza e nessuna supplica che spinga al ripensamento o che costringa alla riconsiderazione di una decisione presa proprio per salvaguardare la democrazia dai tentativi di forzature che sono sempre in agguato.
Adesso l’eccezione è una consuetudine e tornare indietro diventa sempre più difficile, forse quasi impossibile…
MARCO SFERINI
30 gennaio 2022
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