Più avanzo nel tempo, più apprendo la brutalità del capitalismo, meno penso di poter essere accondiscendente anche nelle forme più banali degli accordi elettorali per scongiurare il “meno peggio” al Paese.
Il meno peggio non conduce al “meglio”, ma soltanto a quello: al “meno peggio”.
Più avanzo nel tempo, più mi rendo conto che davvero sarebbe facilissimo rovesciare questo sistema economico che brutalizza le nostre vite, violenta la natura e fa di ogni cosa ed esistenza una merce.
Sarebbe facilissimo se non ci facessimo prendere dalla rete (in tutti i sensi… anche quella internettiana, anche quella televisiva…) del “possibile”, considerando le proposte più esigenti come forma di audacia e spavalderia, come impresa utopica, donchisciottesca.
Forse la psicoanalisi può spiegare tutto ciò al singolare. Magari l’antropologia può farlo al plurale e dirci che le masse sono per lo più rivoluzionarie per convenienza e non per principio di coscienza dettato dalla necessità e dal bisogno.
Le rivoluzioni che facciamo sono quelle che accontentano tutti nel nome della felicità, dell’amore, della democrazia.
Tre concetti usati e abusati d qualunque parte sociale e politica. Ma più di tutto abusati da chi segue la corrente e cerca il mare aperto, dove nuotano anche i pescecani, ma dove, in fondo, ci sono meno impicci, meno scogli, meno vive tortuose.
Psicologicamente è comprensibile. Intellettualmente è disdicevole. Politicamente è una aberrazione.
(m.s.)
Foto di mohamed Hassan da Pixabay