Quando nel 1933 il partito nazionalsocialista arriva al potere in Germania lo storico dell’arte Erwin Panofsky si trovava negli Stati Uniti. Professore all’Università di Amburgo, Panofsky insegnava alla New York University dal 1931 alternando i semestri tedeschi e quelli americani. Il nuovo cancelliere mise subito in atto il suo piano di epurazione: Panofsky, in quanto ebreo, perse il posto ad Amburgo. Così, di fatto, la sua vita prese una svolta inaspettata: costretto a rimanere negli Stati Uniti, lo studioso non avrebbe più scritto o parlato in tedesco, sua lingua madre. A distanza di molti anni, con uno sguardo retrospettivo in un saggio rimasto assai celebre e pubblicato per la prima volta nel 1954, Panofsky provò a tirare le fila di che cosa aveva significato per la storia dell’arte in America l’arrivo di così tanti studiosi europei, in particolare tedeschi.
Con grande pragmatismo da parte americana si comprese per tempo che quel flusso di emigrazione era un’occasione da non lasciarsi assolutamente sfuggire: «Hitler’s gift to America» titolava un articolo di Martin Gumbert uscito nel 1943 su «The American Mercury». Era l’élite intellettuale europea che guardava all’America come all’unica «terra di speranza», come scrisse nel gennaio 1938 Ernst Ludwig Kirchner all’amico Wilhelm Valentiner. Rifugiato in Svizzera, Kirchner si sarebbe tolto la vita nel giugno dello stesso anno.
Scienziati, professori, scrittori, critici, artisti sbarcavano a Ellis Island lasciandosi alle spalle il Vecchio Mondo. Non per tutti fu una scelta ‘pacifica’; molti di loro, una volta conclusa la Seconda Guerra Mondiale, rientrarono in Europa, chiudendo così quella che sin dall’inizio avevano considerato una parentesi dettata dalla situazione d’emergenza. Per altri, invece – come nel caso di Panofsky, ma anche di Albert Einstein –, gli States divennero la loro casa, la loro terra.
Un punto di svolta tanto importante quanto tragico fu la capitolazione della Francia nel 1940. L’armistizio conteneva precise istruzioni sulla cosiddetta «consegna su richiesta»: la Gestapo poteva richiedere, cioè, la consegna dei rifugiati tedeschi. Per contrastare questo provvedimento un gruppo di americani diede vita all’Emergency Rescue Committee e si adoperò per far sì che in molti venissero salvati, inviando il giornalista Varian Fry a Marsiglia con una lista di nomi. Marcel Duchamp, André Masson, Franz Werfel, Hannah Arendt, Max Ernst, Heinrich Mann espatriarono tutti grazie all’aiuto di Fry e all’impegno del governo americano che garantiva uno speciale visto per chi entrava nel Paese. Tra intellettuali, scrittori e critici furono molti gli artisti a emigrare verso ovest.
Proprio sull’emigrazione degli artisti si concentra il libro di Maria Passaro, Artisti in fuga da Hitler L’esilio americano delle avanguardie europee (Il Mulino, pp. 182,euro 16,00). L’obiettivo del volume è di seguire le vicende dell’esilio di alcuni dei protagonisti della scena artistica degli anni venti, costretti loro malgrado a rifugiarsi di là dall’Atlantico. Ci fu chi, come Marc Chagall, non si abituò mai all’idea di abbandonare la Francia, tanto che non parlò mai inglese e, appena gli fu possibile, fece ritorno a Parigi. Altri invece, in special modo coloro che avevano insegnato al Bauhaus come Joseph Albers e László Moholy-Nagy, accolsero con entusiasmo le possibilità che la nuova terra gli offriva. Albers iniziò insegnare al Black Mountain College (North Carolina) – dove fu insegnate, tra gli altri, dei giovani Robert Rauschenberg, Kenneth Noland e Cy Twombly – prima di approdare alla School of Art and Design di Yale; Moholy-Nagy venne reclutato per dare vita al «New Bauhaus» a Chicago.
Con loro emigrava dall’Europa anche un’intera tradizione di studi e di saperi che sarebbe stata cruciale per molte delle future generazioni di artisti e critici americani: basti pensare al ruolo di Albers per un artista come Donald Judd. Ma, forse, il caso più eclatante è quello di Hans Hofmann che, con la sua scuola d’arte a New York, avrebbe esercitato un ruolo di catalizzatore per i giovani Jackson Pollock, Mark Rothko e Arshile Gorky. Così come la tradizione di studi che Panofsky ricordava nel 1954 era stata innestata con successo nelle maggiori università americane, anche le spinte dell’avanguardia trovavano terreno fertile a un loro adattamento. Si pensi al caso di uno dei padri del costruttivismo, Piet Mondrian, che proprio a New York risiedeva dal 1940 e che avrebbe vissuto un’ultima folgorante stagione creativa, stimolata dalla metropoli e dalla sua vita brulicante, interrotta solo dalla morte dell’artista nel 1948.
Per quanto il libro di Passaro concentri la sua analisi sugli artisti, merita sottolineare come il successo e l’accoglienza dei rifugiati europei fosse per molti aspetti il frutto di legami culturali che avevano radici molto salde nel passato. Sia le migliori università (il caso di Harvard è esemplare) che le più alte istituzioni museali americane guardavano all’Europa, e alla Germania in particolare, per colmare il divario culturale che a inizio Novecento le separava dalle rispettive istituzioni europee. Non a caso il giovane Alfred Barr jr., negli anni venti, in vista dell’apertura del MoMA, compì un viaggio europeo dove rimase particolarmente colpito dal Kronprinzenpalais a Berlino, dove era ospitata la sezione di arte moderna della Alte Nationalgalerie. Ancora, era stato guardando proprio alle università tedesche che quelle americane avevano dato vita ai primi corsi di dottorato; e infatti molti studenti trascorrevano interi semestri proprio in Germania.
Da queste dinamiche (che con orrenda parola oggi spesso si definiscono «transnazionali») non erano certo esenti gli artisti, che spesso avevano Monaco come meta per perfezionare i loro studi. Dovette apparire naturale, allora, dare asilo e facilitare in ogni modo la permanenza dei rifugiati tedeschi, dopo il 1933. È importante tenere presenti queste linee di continuità per comprendere ancor meglio il vero e proprio turning point che fu quel 1933 e le possibilità che dischiuse tanto a chi arrivava quanto a chi accoglieva. «Tutto appare possibile. La finalità paralizzante del disastro europeo è lontana. Amo l’aria nuova e piena d’aspettative che mi circonda»: così scriveva Moholy-Nagy alla moglie Sybil nell’agosto del 1937, e concludeva: «Sì, voglio restare». Questa prospettiva della ‘lontanaza’ è assai importante per capire alcune delle scelte di fondo di molti degli emigrati. Da oltreoceano si guardavano con distanza anche gli studi e la tradizione in cui, consapevoli o meno, si era inseriti. E, allo stesso tempo, si stringevano legami e ci si inseriva in un nuovo contesto. Fu un processo che coinvolse, praticamente, tutti gli émigrés e che avrebbe dato i suoi frutti negli anni successivi. Si determinò così una vera e propria Wissenschaftstransfer, cioè il trasferimento, lo scambio e la trasformazione della conoscenza scientifica – basti citare i casi degli storici Felix Gilbert o Ernst Kantorowicz.
Quanto agli artisti americani, in un breve giro d’anni si sarebbero scrollati di dosso il senso di inferiorità nei confronti della cultura del Vecchio Continente. E in questo giocò un ruolo anche l’insegnamento degli europei emigrati in America. Sarebbe bastato qualche anno, e l’americano Rauschenberg avrebbe vinto il primo premio alla Biennale del 1964.
MARCO M. MASCOLO
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